La lezione di Forlani appare oggi ricca di insegnamenti preziosi.

Rifiutò di combattere nella Repubblica di Salò. Ebbe forte il concetto di partito popolare, aperto socialmente a sinistra, non invasivo delle istituzioni. Difese la centralità del Parlamento e dimostrò senso dello Stato.

Arnaldo Forlani ha raccontato di essersi trovato “naturalmente” a impegnarsi in politica rifiutandosi di combattere per la Repubblica sociale italiana, una scelta che lo obbligò alla clandestinità. Da allora è cominciato un lungo percorso – sono parole sue – nel “partito di ispirazione cristiana [che] dopo il fascismo e la guerra, aveva senso solo se era unitario, come De Gasperi l’aveva immaginato”. L’unità dei cattolici in politica non è normale: perché la fede in Qualcuno che trascende la storia dovrebbe unire sul terreno delle questioni contingenti e delle scelte opinabili? Solo un motivo straordinario può giustificare una simile unità. Ottant’anni fa, dopo il fascismo e la guerra, questo motivo sembrò a molti che ci fosse: occorreva un impegno storico eccezionale per sradicare la violenza dentro gli Stati e tra gli Stati. 

Fascismo e nazismo avevano mostrato che la soppressione dell’innocente è il risultato finale di un potere sempre più assoluto sulla vita dell’altro che prende corpo attraverso una catena di disprezzo, umiliazione, discriminazione, separazione, esclusione, degradazione, disumanizzazione… Nel secondo dopoguerra, rifiutare tutto questo ha voluto dire costruire un sistema istituzionale e una vita politica che smontassero, pezzo per pezzo, tale catena. Ci sono stati vari tipi di antifascismo, legati tra loro ma con caratteri differenti. Quello dei cattolici – incentrato sulla dignità della persona e che ispira gli articoli 1, 2 e 3 della Costituzione – è stato strettamente legato all’esperienza della Seconda guerra mondiale – una “tragedia epocale”, la definì Dossetti – cui il fascismo aveva condotto l’Italia spinto dal culto della violenza che, secondo Emilio Gentile, ne ha costituito la sostanza più profonda. 

Nel 1945 è cominciato un nuovo ordine mondiale fondato su pace e democrazia che ha retto anche alla prova terribile della Guerra fredda. È stata questa l’ispirazione profonda di tante posizioni assunte da Forlani e, soprattutto, dell’idea complessa di democrazia che era dietro tali posizioni. Seguì la strada tracciata da De Gasperi che, quando la Dc ottenne, dopo le elezioni del 1948, la maggioranza assoluta in Parlamento, decise comunque di allearsi con altri partiti: “mai da soli”. Questa linea si è espressa poi nella formula del “partito della nazione”, che non aveva il significato ad essa attribuita in seguito e ancora prevalente di partito di maggioranza che monopolizza o quasi il potere, ma quello molto diverso di cardine che permette al sistema politico di crescere in senso sempre più pluralista. 

Arnaldo Forlani ha tradotto tutto questo nell’espressione “centralità democristiana”, indicativa del ruolo particolare assegnato al suo partito in una democrazia complessa e certamente non riducibile alla prevalenza della maggioranza sulla minoranza. Per Forlani politica non voleva dire scontro per azzerare l’altro, ma modo per camminare insieme e, possibilmente, per migliorarsi reciprocamente anche se con ideologie opposte. Preferiva il sistema elettorale proporzionale perché “senza la proporzionale la democrazia avrebbe avuto maggiori difficoltà ad affermarsi”: infatti, “garantisce meglio la rappresentanza dei diversi orientamenti che presenti nel paese possono e debbono concorrere al confronto, alla formazione delle leggi”. Il potere non deve andare nelle mani di uno solo, anche se ha vinto le elezioni: il Parlamento adempie pienamente al suo ruolo centrale nel sistema politico-istituzionale se qui tutte le voci hanno diritto di parola. 

Un altro esempio: perché non approfittare delle difficoltà dei comunisti in vari momenti della storia repubblicana per metterli in difficoltà con elezioni anticipate? Non lo si doveva fare per facilitare “processi di revisione nel loro campo”: infatti, “lo scontro elettorale, radicalizzando il confronto, li avrebbe resi più difficili”. Il governo Tambroni nel 1960, ha ricostruito Forlani, non fu rovesciato dalle piazze: più decisivo fu il cambiamento, in Parlamento, della maggioranza che sosteneva il governo, cui paradossalmente contribuì a suo modo anche il Pci votando contro il nuovo esecutivo con astensione socialista. La svolta del 1960, ha commentato Forlani, mostrò “che la lotta politica in Italia era destinata a un confronto lungo e difficile, non risolvibile con blocchi d’ordine”. “Nostro obiettivo non era solo la sconfitta dell’avversario ma anche la sua evoluzione democratica e dunque una graduale e convinta corresponsabilità istituzionale”. 

La storia ha mostrato la fecondità di questo approccio. Nella “repubblica dei partiti” buona parte del potere si è concentrato nelle loro mani. Tra il partito unico fascista e i partiti democratici del dopoguerra per Forlani c’era “una bella differenza […] Il partito unico era la negazione della democrazia, inquadrava le masse, aveva un dittatore inamovibile e una gerarchia cooptata”. Sottolineava che “la repubblica l’hanno fondata” i partiti e questi “sono stati a lungo i canali per intervenire nei processi democratici”. Ma era anche consapevole dei pericoli che comportava questa concentrazione del potere e non era insensibile alle critiche del modello “leninista” che ha ispirato l’organizzazione di tutti i partiti novecenteschi, come disse nel 1965 a Sorrento. Qui si svolse un’approfondita discussione sui grandi nodi politico-istituzionali che hanno poi dominato il dibattito politico italiano nei decenni successivi e di cui, per certi versi, si continua a discutere anche oggi. 

Forlani ne fu un protagonista importante, con capacità di analisi e respiro progettuale non comuni. Per lui “essere obbligati a governare” comportava responsabilità più grandi. Non coltivava l’idea del partito personale, che si identifica con un unico leader, ma quella di un partito a guida collegiale e che si muove con prudenza. Apprezzava quei segretari che convocavano spesso gli organi interni e che ascoltavano attentamente i gruppi parlamentari; egli stesso ha adottato questo stile quando è stato segretario della Dc. Era inoltre convinto che i segretari di partito non dovessero avere un’influenza diretta sul governo e per questo si oppose all’ingresso dei segretari di maggioranza nell’esecutivo. 

“Quel sistema ‘partitocratico’ aveva in sé equilibri e contrappesi che garantivano forse più dell’attuale gli spazi di autonomia del governo” ha detto nel 2009. “Le decisioni importanti venivano prese solo nel Consiglio dei ministri e dopo discussioni approfondite e assai impegnative”. Importante era per lui coinvolgere i cittadini. Grande nemico della democrazia – lo vediamo oggi chiaramente – è infatti l’astensionismo. Se il voto di preferenza favoriva la partecipazione – argomentava – perché eliminarlo? Non si devono, infatti, imporre agli elettori soluzioni preconfezionate dai partiti che disincentivano la partecipazione, ma valorizzare le occasioni in cui essi possono esprimersi liberamente e autonomamente. Arnaldo Forlani ha dichiarato di non essere mai stato interamente un uomo di corrente, anche quando ne ha guidata una, che peraltro non era la sua ma quella di Fanfani. 

Non è stato originariamente un dossettiano, ma Dossetti lo invitò a Rossena quando sciolse la sua corrente, aderì poi a Iniziativa democratica, si legò molto a Fanfani, ma fu protagonista di un rinnovamento generazionale e assunse un ruolo di primo piano a partire dalla metà degli Anni Settanta. Il suo percorso nel partito rivela molte aperture e attenzioni verso l’esterno. È stato sindacalista, ha rivolto grande attenzione ai problemi del mondo agricolo, è sempre stato convinto che la Dc dovesse guardare, in senso sociale, verso sinistra, ha avuto grande attenzione per i paesi in via di sviluppo e ha svolto in modo incisivo il ruolo di ministro degli Esteri. 

Si dice che la fine di qualcosa illumina ciò che è venuto prima. Non è stato così per Arnaldo Forlani. A distanza di anni capiamo meglio che la fine della sua esperienza pubblica – e dell’intero sistema politico italiano post-bellico – è stata determinata da un passaggio storico di grande importanza ma che ha segnato anche l’inizio di scelte sbagliate. Se il mondo dopo la Seconda guerra mondiale è stato guidato dagli ideali della pace e della democrazia, dopo il 1989 è iniziato qualcosa che ci ha condotto oggi a un impressionante dilagare della guerra e a segni di crisi della democrazia sempre più evidenti. 

Ecco perché la lezione di Arnaldo Forlani – e di altri come lui – ci appare oggi ricca di insegnamenti preziosi e attuali.  

 

Testo dell’intervento svolto a Roma, mercoledì 22 novembre, presso l’Aula dei Gruppi Parlamentari, in occasione della cerimonia commemorativa in ricordo di Arnaldo Forlani.