La morte senza perché nella centrale idroelettrica di Bargi

Non si muore anche sul lavoro ma anche di lavoro. La morte è ingovernabile e screanzata, si aggira ovunque, anche lì dove le è stata lasciato uno spazio minuscolo da microscopio.

Mario, Pavel e Vincenzo, rispettivamente un pensionato, un immigrato e un giovane sposo sono morti a 40 metri sottoterra travolti dalla esplosione di una turbina che ha generato una micidiale miscela di acqua, di fuoco e di fango. Alla fine, è mancata anche loro l’aria e ora li piangiamo come vittime del lavoro. D’improvviso, gli è venuta meno la radice della terra, travolti dai sentimenti funesti dell’acqua, arsi dall’energia maligna del fuoco, privi dei pensieri che un’aria putrida non ha dato modo di liberare.

Si tratta della centrale idroelettrica di Bargi. I tre uomini erano di generazioni diverse: chi con la primizia del matrimonio da poco consumato, chi con l’esperienza dell’età, chi da un paese straniero. Tutti mischiati in un unico tragico destino, confusi, quasi a non voler dar traccia della causa certa dell’accaduto. Si sono ritrovati al nono piano sottoterra nel girone di una turbina traditrice che gli ha tolto la vita. Insiemi ad altri dispersi, per come si è compreso, li hanno cercati anche nella profondità dell’ottavo girone, frodati da un destino che non ha tenuto conto di un futuro che non andava soppresso. La sentenza conclusiva è di 6 uomini che non faranno più ritorno alle loro case.

Scontate le tavole rotonde televisive con le lamentele proprie di queste situazioni. In media sono 800 i morti che ogni anno il nostro bel paese deve piangere perché caduti sul lavoro. Eppure, questa volta sembra esserci un sussulto in più, sembrando più difficile recriminare contro le solite deficienze di questi accadimenti. Questa volta si è trattato di collaudare una turbina e per questo erano state chiamate imprese esperte del settore. Certo, di solito è possibile prendersela con i sub appalti a cascata che non garantiscono la qualità della fora lavoro. I tre uomini erano invece riconosciuti come professionisti di comprovata capacità.

Si dice, giustamente, che le imprese appaltatrici sono ormai soggetti in grado di aggiudicarsi contratti, ma senza più strutturarsi con la dimensione organizzativa e quindi di manodopera che occorre per far fronte agli impegni assunti.

Da qui il virtuoso meccanismo dei subappalti o delle attività esternalizzate che genera polemiche per la sostanziale dequalificazione del personale dell’impresa contraente.

A questo si lamenta la difficoltà e inadeguatezza dei controlli per il rispetto delle norme di sicurezza. Si aggiunga che il calo demografico comincia a presentare il conto, dovendosi ricorrere a usurate maestranze e vecchi professionisti da affiancare a giovani a digiuno di competenze. Puntualmente la si è pure buttata in politica: è scattato l’allarme perché le centrali energetiche andranno a finire sotto il cappello delle Regioni, con tutto il carico di inefficienza e di sperpero del denaro pubblico che non raramente caratterizza quell’ente territoriale.

Si potrebbe andare avanti così ancora per molto a fare l’elenco delle contestazioni e delle perplessità che suscita la materia del lavoro e delle sciagure che l’accompagnano.

Ciò malgrado, qualcosa sfugge stavolta alla nostra accettazione del disastro e ci lascia pertanto inquieti e ancor più spiazzati per il futuro.

Ora è in ballo il tema dello sconcerto e della angoscia che ha fatto capolino nell’animo di chiunque all’apprendere del tragico incidente dei lavoratori di Burgi. Non è morto un manovale, caduto da un ponteggio perché privo di apposita imbracatura, lì dove non si è dato corso ad una prevista procedura di prevenzione. Se fosse vero che dalle parti di Suviana tutte queste contestazioni sono fuori campo, non resterebbe che una sola gelida conclusione. La morte si rinnova anche attingendo drammaticamente dai luoghi positivi delle fonti rinnovabili e fa il suo corso dentro o fuori l’impresa primaria o secondaria che sia.

Occorre allora rivedere la grammatica e smettere di usare espressioni improprie e peggio ancora illusorie. È bene farla finita con l’idea che ci sia sempre una causa dovuta a chissà quale negligenze e trascuratezza. Sarà vero per la maggior parte dei casi ma non per tutte le combinazioni.  Ci si deve rassegnare al fatto che nel corso del nostro transito umano non si muore anche sul lavoro ma anche di lavoro.

La sicurezza assoluta non esiste, proprio come in nessuna altra attività. Lo ha dichiarato l’ad di Enel Green Power, Salvatore Bernabei, in conferenza stampa a Camugnano. “Ci sono tante possibili cause” che possono aver provocato questa strage. Si traduce nella ammissione che molte e costantemente in agguato sono le ipotesi di incidenti quando si va per certi mari. Ha aggiunto come tutte le centrali hanno un sistema di supervisione e controllo che si chiama Scada. Almeno ci sarebbe da augurarsi che non sia scaduto mancando al suo compito.

Ferma ogni attenzione per la vigilanza e controllo dell’osservanza delle misure volte contro ogni possibile infortunio, resta una ineluttabilità. Anche il lavoro è una occasione di morte, tanto più se comporta attività che implicano un qualche grado di rischio e pericolosità. In qualche occasione è una responsabilità dell’uomo, altre volte una tragica fatalità. La morte è ingovernabile e screanzata, si aggira ovunque, anche lì dove le è stata lasciato uno spazio minuscolo da microscopio. Resta solo una certezza: di lavoro si muore.