La politica non può essere un campo di battaglia
Partiamo da alcuni dati. Il primo è rappresentato dallo straordinario successo della fiction ispirata alla storia di Goffredo Mameli, autore del testo del Canto degli Italiani, andata in onda su Rai uno il 12 e il 13 febbraio. La prima delle due puntate ha espugnato la roccaforte televisiva del Grande Fratello (Avvenire, 13 febbraio 2024) e la seconda ha vinto la competizione con la partita di Champions League. In un momento in cui l’Italia sta attraversando un periodo di difficoltà, la miniserie ha offerto al pubblico un bel momento di riflessione, portando sul piccolo schermo la storia di una fase cruciale del nostro Risorgimento culminata con la proclamazione della Repubblica Romana.
Un’altra buona notizia è rappresentata dalla riuscita della mostra su Enrico Berlinguer, che si è conclusa domenica 25 febbraio con un’ultima giornata di alta affluenza. L’esposizione, ricca di materiali d’archivio, filmati d’epoca, fotografie, video e oggetti personali che offrono una visione completa della figura di Berlinguer, si è tenuta nei locali romani dell’ex-Mattatoio di Testaccio e alla fine, nei poco più di due mesi di apertura, ha registrato la presenza di 65mila visitatori, tra questi anche tanti giovani (Internazionale, 5 marzo 2024). Ci sono passato anche io e devo dire che l’allestimento è stato curato nei minimi dettagli ed è stata davvero un’occasione significativa per immergersi in un periodo storico decisivo della nostra Repubblica. C’è chi ha scritto nel grande libro delle firme della mostra che «oggi manca un partito e un’idea della politica come ricerca, ascolto e partecipazione». Come dargli torto.
Per la nostra riflessione, il terzo dato di una certa rilevanza è quello relativo all’inatteso risultato in termini di share di pubblico per la trasmissione La torre di Babele, condotta da Corrado Augias su la7 e, in particolare, per la puntata dello scorso 4 marzo dal titolo “Cosa resta di Berlinguer?”. Un risultato che dimostra che c’è ancora un grande bisogno di uno stile, di un «linguaggio politico al quale non siamo più abituati» e di figure autorevoli e competenti in grado di interpretare la complessità del presente. Discutendone nella trasmissione di Giovanni Floris, Corrado Augias ha offerto una lucida analisi, tra i tanti spunti, sul ruolo degli intellettuali nella società contemporanea, soffermandosi in particolare sul loro ridotto potere di influenza e sulla loro ristretta capacità di intervento nel dibattito pubblico. In questa prospettiva, a seguito dei cambiamenti sociali degli ultimi decenni e della diffusione di una narrazione “mainstream” e omologata, occorre interrogarsi se la cultura abbia qualche responsabilità nell’essersi allontanata dagli italiani. Prova ne è il consenso e il successo riscossi da messaggi, personaggi e da libri che «[vendono] molto di più di quelli della sinistra». Significativo è il ragionamento di Augias, soprattutto quando lascia intendere come la retorica semplice e diretta che si nasconde dietro queste scorciatoie ha lo scopo di rivolgersi alle emozioni del pubblico e «allo strato più debole e indifeso della popolazione che ci si identifica». Facendo un pizzico di autocritica ammette in qualche modo, quanto sia facile difendersi da questa “offensiva” populista per quelli che un tempo si sarebbero definiti come cittadini culturalmente avvertiti. Lo sforzo degli intellettuali, oggi, «dovrebbe essere [invece] quello di correggere quel tipo di mentalità», rafforzando gli anticorpi delle fasce più fragili e lavorando, per esempio, sulla scuola e sull’istruzione in generale. Dunque, investendo in cultura.
Allora torna attuale una riflessione di Maurizio Ridolfi quando, già da tempo, ha evidenziato l’emergere di un curioso paradosso: rispetto a un indebolimento nella società del discorso storico prodotto e verificato dagli studiosi di professione, si registra invece una ricchezza di storia e di storie nello spazio pubblico che rivela un disagio comunicativo di fronte a una domanda di storia crescente (Officina della Storia). L’obiettivo, di conseguenza, è quello di “accorciare le distanze” fra gli intellettuali e la società, auspicando un rinnovamento di linguaggi e di pratiche che la società della comunicazione ormai richiede.
Uno dei caratteri fondanti della “democrazia del leader” (Mauro Calise), è rappresentato dall’invenzione del nemico e, di conseguenza, dalla sua demonizzazione. Moro e Berlinguer furono a lungo avversari, tra la Dc e il Pci si vissero scontri durissimi, ma poi c’era rispetto, non si arrivava mai all’oltraggio. Si trattava di comunità politiche e di leader capaci di intercettare il disagio e la voglia di cambiamento che serpeggiavano nella società italiana e che, con strategie diverse, erano aperti al dialogo con le altre culture e sensibilità.
Oggi, viceversa, con vittorie elettorali spesso di misura e in un contesto di forte astensionismo, chi vince si arroga il diritto di appropriarsi totalmente del potere. Questa pretesa non fa altro che aggravare la sfiducia del corpo elettorale verso le istituzioni. La cultura dello scontro in politica è diventata un ostacolo al progresso e al benessere comune.
È tempo di unire, con il dialogo e il senso di responsabilità, per affrontare le sfide che ci attendono in questa società sempre più complessa. Le persone tenderanno ad allontanarsi sempre più dalla politica fino a quando la percepiranno come un campo di battaglia, dove non c’è spazio per la moderazione e per la capacità di trovare soluzioni che funzionino per tutti.
Se la storia è «sempre storia contemporanea», come affermava Benedetto Croce, allora lasciamoci guidare dal passato che ci aiuta a chiarire le idee e a leggere meglio il presente (Luciano Canfora), senza trascurare l’importanza offerta da questi segnali positivi che fanno emergere, nonostante tutto, il forte interesse per il dibattito pubblico su temi di grande rilevanza storica e politica.