La psicosi dell’uomo forte alleggia sul premierato della destra

È in costante crescita una malattia dell'ego definibile "leaderpatia". Una psicosi mentale che spinge a essere dei leader a tutti i costi, anche senza averne le qualità e le competenze.

Il dado è tratto. Rassegniamoci! E iniziamo a prepararci al referendum sul cui NO contiamo molto…

Al momento dobbiamo solo preoccuparci. Perché è da un po’ di tempo che in Italia circola una voglia politica cesarista: il premier, il leader, il capo, l’uomo forte, il comandante, il primo, l’unico, perfino l’influencer. Insomma, l’individuo, il singolo e l’IO innanzitutto. E poi se rimane tempo il NOI, la comunità e la collettività. Una voglia alimentata da un ritorno, non tanto silenzioso a ben vedere, di un “futurismo” postmoderno che “…glorifica il patriottismo” e che omaggia la “…bellezza della velocità“. Oggi siamo in presenza di Internet e della A.I, mentre ai tempi di Tommaso Marinetti nasceva l’automobile. Ma sia ieri quanto oggi, solo un efficiente autoritarismo centralizzato, solitario, celere e scattante, senza la perdita di tempo del confronto…(parlamentare) potrà essere utile …alla Patria!

Speriamo bene e apriamo gli occhi.

Lascio ai costituzionalisti il discorso sui pericoli del ridimensionamento degli equilibri tra i diversi poteri dell’ordinamento, e i punti critici che fa intravedere la legge elettorale conseguente al premierato. E mi soffermo su alcune questioni elementari che appartengono al buon senso della democrazia.

Un fatto è certo. Con il Premierato inviato alle Camere, la governabilità ha vinto per il momento sulla rappresentatività. Bisogna che il capo duri 5 anni garantendo stabilità, senza farci cadere nei peccati mortali dei governi tecnici e dei ribaltoni; bisogna tacitare il Parlamento senza necessariamente ridurlo ad un… bivacco, ma quasi; bisogna bloccare i tragici poteri del Presidente della Repubblica facendolo sedere in panchina a bordo campo come riserva (e forse neanche); e bisogna disinteressarsi di quanti italiani sono veramente rappresentati dal futuro premier, una volta eletto in diretta con il premio di maggioranza previsto per il suo partito o per la sua coalizione.

Con le sue decise posture, assertive e spesso nervosamente minacciose, mitigate da un elegante cambio giornaliero di vestiti, la Meloni ha fatto sapere che la “madre delle riforme”, il Premierato, che ridimensiona, ma solo di poco, quanto chiedeva il suo mentore Giorgio Almirante col presidenzialismo, sarà discussa in Parlamento.

Un centralismo autoritario ben mascherato in salsa democratica: condiviso da Salvini dopo l’accordo sulla “sua” Lombardia per farla  diventare fortemente autonoma e differente dal resto d’Italia, senza nessuna  concessione  alla sussidiarietà; appoggiato da Tajani in ricordo del suo maestro Berlusconi; e financo da Renzi con tutto il suo confuso funanbolismo leaderistico centrista.

I numeri adoperati per spiegare fenomeni qualitativi si dovrebbero evitare. Ma in alcuni casi essi sono utili. Perché è la quantità che in certi casi  riesce a spiegare  per bene la qualità, e sono i numeri  che riescono a far capire meglio  quello che si vuole dire, e quello che si nasconde.

Mettiamola allora così: se io compro metà di mezza anguria, risulta chiaro che ho comprato un quarto dell’intera anguria.

Se questa è una logica verità matematica, e in virtù del fatto che il premierato solleciterà sicuramente, secondo i suoi più accaniti difensori, anche una forte diminuzione dell’alto tasso di assenteismo, mi permetto allora due sole domande. Ma siamo proprio sicuri che alle prossime elezioni supereremo l’80-90% degli aventi diritto, e cioè che il premier eletto, rappresenterà una grande quantità di italiani col diritto al voto? O non è più realistico supporre che avremo da fare con un 50-60% di votanti?

Se questa seconda domanda nasconde qualche briciolo di probabilità, dobbiamo cominciare a pensare che sarà proprio “la madre delle riforme” a far tremare la rappresentatività: fondamentale base qualitativa della democrazia politica partecipativa di un paese.

Se infatti la democrazia, da Pericle in poi, sottende il governo del popolo – non di una élite e di pochi, dunque, ma dei molti se non di tutto il popolo – quando andremo a votare con la legge del premierato in cantiere e con il suo previsto premio di maggioranza del 55%, non si pecca di pessimismo se si suppone che non andrà a votare più del 60 % degli elettori.

La risposta più banale a questa tendenza al ribasso che circola da tempo, ma che proprio la nuova legge elettorale, secondo i più ottimisti difensori del premierato dovrebbe invertire, è riposta nella colpa di chi non va a votare: fatti loro! Altre cause, come per esempio la scomparsa degli ideali nei partiti, e non tanto delle loro degenerazioni in ideologie; la qualità della classe politica improvvisata, il suo narcisismo televisivo, la sua delegittimazione nei confronti dell’opinione pubblica; la demotivazione del “popolo”, sino alla stessa svolta leaderistica – si vota per una faccia e non per un partito; ecco, queste altre cause sembrerebbe non ce ne siano mai state. In realtà non si sono mai cercate.

Aggiungo che stando così le cose, bisogna solo ricordare che è sotto gli occhi di tutti la voglia di creare partiti e partitini con nuovi leader solitari e autoproclamati, in diretto contatto con gli elettori grazie ai media, ma senza partito e strutture di partito centrali e territoriali alle spalle. Dando così ragione al filosofo Bernard Manin e alla sua “Democrazia del pubblico” che ci aveva avvertito per tempo che la politica oggi la fanno solo i singoli leader, aiutati dalla comunicazione mediatica: “…non ce più rappresentanza, ma solo il leader in rapporto diretto col pubblico”. Altro non si vede. Figuriamoci il ruolo dei media con il premierato, che legittima il leader con una elezione diretta.

Mi auguro allora di sbagliare la previsione. Sarà pure colpa degli assenti, ma una volta immersi senza scampo nella politica-spettacolo dominante, una volta nelle mani dei social e delle fakes news, e di quant’altro di comunicazione a distanza esista, il primo partito della coalizione che vincerà le elezioni – mettiamo – con il 30 % del voto, avrà tutto il diritto di eleggere il premier che governerà il Paese per 5 anni dall’alto, con il Parlamento collocato nel sottoscala o chiuso a chiave in cantina.

Se stanno così le cose, un semplice calcolo ci porta a ricordare che il 30% del 60 % dei votanti, significa che il premier eletto con questi numeri, rappresenterà solo il 18% degli aventi diritto, ancora di meno se confrontato con tutto il popolo italiano, compresi i minorenni che non votano.

Ricordo a tale proposito che il partito della attuale premier in odore di Premierato, con il suo 26% di voti ottenuti nelle ultime elezioni deve confrontare questo suo risultato col 64% di votanti. Se si compie questa operazione, risulterà che i “fratelli italiani” che hanno votato la Meloni non sono più del 17% degli italiani abilitati al voto, e che l’83% si è disinteressato o ha votato diversamente.

Comunque si valutino le quantità, rimane ed è in costante crescita quella malattia dell’ego che, divagando tempo fa, ho definito “leaderpatia”. Un disturbo della personalità o una psicosi mentale che spingono a essere dei leader a tutti i costi, anche senza averne le qualità e le competenze. Leader “drammaticamente inadeguati, sia sul versante palestinese che israeliano”, scrive Sergio Fabbrini sul Sole 24 ore. Leader che soprattutto ignorano cosa significhi esercitare una paziente leadership, intesa come guida autorevole e sapiente. Su tutto questo dobbiamo stare molto attenti, perché con il premierato meloniano non è molto difficile eleggere dei premier che somiglino ai Trump, o ai Putin. Per non parlare del coreano del Nord, Kim-Jong-Un, e dello stesso e tranquillo russo Xi Jinping, ecc. Specie se aiutati dai vecchi e nuovi media, spesso controllati, come ha intuito Manin.