Savoca, nello scandagliare il vocabolario esistenziale di Verga, dedica una particolare attenzione alla parola «peccato», che è una categoria interna al suo mondo, alla sua antropologia e alla sua idea di storia, di ogni storia. Pubblichiamo, per gentile concessione, l’articolo integrale che appare sul numero odierno del giornale ufficioso della Santa Sede.
Gabriele Nicolò
L’impresa è coraggiosa, perché intende portare alla luce tesori nascosti sia nella dimensione esistenziale che nell’impostazione narrativa di Giovanni Verga, la cui immagine dominate si specchia nello stereotipo di uno scrittore ateo e materialista. Con Verga cristiano dal privato al vero (Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2021, pagine 231, euro 28) Giuseppe Savoca — professore emerito di letteratura italiana moderna e contemporanea all’università di Catania — rivisita l’opera dell’autore siciliano con l’obiettivo di stabilire, con solide e acute argomentazioni, il legame che unisce il suo essere cristiano nel privato e la “verità” che pervade e innerva i suoi capolavori.
Savoca rileva che Verga ha a cuore, plasmandola nell’atto creativo della scrittura, la religione della famiglia, come significativamente attestato dalle lettere ai propri cari. In tali missive lo scrittore si configura quale «vero autore e protagonista di un secondo romanzo familiare», sotto forma di cronaca della sua famiglia, in cui risiede il nucleo genetico de I Malavoglia. Il riesame puntuale della teoria dell’impersonalità — soprattutto in merito al pensiero e ai sentimenti dei personaggi malavoglieschi — conferma, da una prospettiva critica inedita, che Verga si colloca sempre e soltanto dalla parte dei buoni, degli umili e dei vinti.
Al contempo lo studio filologico della prefazione all’Amante di Gramigna svela una precisa tematica biblica soggiacente al “fiat creatore” che è alla radice della poetica verdiana. Savoca ha quindi la perizia di rinvenire sottili quanto sicure tracce della Genesi e di altri testi della Bibbia in Rosso Malpelo. In questo fanciullo si è sempre stati tentati di riconoscere il simbolo di una devastante malinconia, la figura che riassume in sé il classico pessimismo verghiano. In realtà, evidenzia l’autore, a questo bistrattato fanciullo Verga fa dire il suo sì alla vita, ovvero alla condizione di «vedere in faccia ogni cosa bella o brutta», attribuendogli il «godimento»: vale a dire, la bellezza e la nostalgia della vita all’aria aperta, del cielo azzurro e dei verdi campi.
Il libro si rivela — al di là della nobile indagine che conduce e dell’eccellenza dell’obiettivo che si propone — un prezioso strumento di “ripasso culturale”, poiché richiama passi e citazioni diretti a favorire una comprensione, la più esaustiva possibile, del valore della narrativa verghiana. Puntuale è il riferimento a Federigo Tozzi il quale sintetizzava così i meriti dello scrittore: «Verga ha riunito nella prosa di due o tre libri tutto ciò che un’unità umana può dare. Egli non si è scisso, è restato compatto». Tozzi invitava a non «accontentarsi di sapere che Giovanni Verga esiste e che è grande», ma a fare anche in modo di «procurarci le occasioni di ritrovarlo in mezzo a noi». L’«unità umana» evocata da Tozzi è da lui paragonata a una di quelle «impalcature fatte per tenere in qualche remota elevazione la nostra anima».
Dal canto suo, Luigi Pirandello — ricorda Savoca — individuava, tra i meriti di Verga, la capacità di «spogliarsi», ovvero di emanare «una forza costruttiva», di stimolare «un richiamo alle origini» che aprono la via alla «sola conquista necessaria agli uomini e ai popoli, la conquista del proprio stile». E nel caratterizzare «il miracolo» dell’arte verghiana che ha luogo ne I Malavoglia, Pirandello dichiara che «il segreto del prodigio è nella visione totale dell’autore, che dà a quanto appare sparso e a caso nell’opera quell’intima vitale unità che non domina mai da fuori, ma si trasfonde e vive nei singoli attori del dramma». In questo modo, osserva Pirandello, «da un capo all’altro, per tanti fili, che non sono di questo o di quel personaggio, ma che partono da quella necessità fatale dominante, l’opera d’arte si tiene tutta, meravigliosamente, con quello scoglio, con quel mare, con l’antica dirittura solenne di quel vecchio uomo di mare, in una primitività quasi omerica».
Non meno penetranti le espressioni, meritoriamente riportate da Savoca, formulate da Gesualdo Bufalino secondo cui la partita verghiana «non si giocò subito sulla pagina bianca, ma prima nel cuore scuro dell’uomo». È da questo «cuore scuro» dell’uomo Verga che nasce «il miracolo», che non è solo della scrittura ma anche di «una esistenza più spesso nascosta che offerta, e il cui segreto è destinato a svelarsi solo a patto d’un lungo assedio e d’un difficile amore».
Savoca, nello scandagliare il vocabolario esistenziale di Verga, dedica una particolare attenzione alla parola «peccato», che è una categoria interna al suo mondo, alla sua antropologia e alla sua idea di storia, di ogni storia. «La storia del singolo come quella di una famiglia o di gruppi sociali e, in fondo, dell’uomo nella sua essenza, e al di là di ogni sua concretezza storico-sociale».
«Ritengo — scrive Savoca — che sarebbe criticamente molto produttivo investigare le diverse fenomenologie di questo tema, non escludendo aprioristicamente la dimensione religiosa e cristiana dello scrittore e dei suoi personaggi su cui resta molto da capire e da mettere in luce. Su questa strada si arriverà forse a rileggere tutto il mondo verghiano come una dolente risposta al trauma della cosiddetta morte di Dio, trama che è il prezzo pagato dall’uomo occidentale al trionfo della modernità». Verga e la sua Sicilia non si rassegnano alla «scristianizzazione» ed alla caduta e perdita dei valori che sembrano caratterizzare e piagare la modernità. «Non so — rileva l’autore — se si possa legittimamente pensare che la modernità per Verga sia il peccato. Credo tuttavia di poter avanzare l’ipotesi che la sua contemporaneità superi il moderno sulla base del primato della “coscienza” e del primato dell’antropologia sulla storia».
Come I Malavoglia esprimono una conquista di linguaggio che è sulla strada degli altri racconti pur presentandosi come nuovo, così le lettere “private” testimoniano un settore della lingua verghiana «meritevole di uno studio specifico», anche per «le tangenze e gli scambi» che è possibile rinvenire e istituire con la lingua dei capolavori. Tale realtà si manifesta soprattutto sul terreno che si potrebbe definire del «linguaggio del cuore e della religione della famiglia».
Era il 15 novembre 1880. Al culmine della fama, al fratello Mario così scriveva: «Ah! Se tutti quelli che m’invidiano potessero leggermi nel cuore, e vedere che giornate passo. Non so pensare alla fine dell’anno senza sentirmi stringere il cuore, e mi sento stanco e sfiduciato di tutto, pur nel tempo istesso che i miei scritti hanno fortuna. Allora il mio pensiero corre a voi, fratelli miei, e desidero un cantuccio della mia casa, e l’oscurità e la pace». Parole che si elevano a testimonianza esemplare del valore perenne del nucleo familiare, che nessuna traversia — per quanto destabilizzante e crudele — potrà mai scalfire, e tanto meno violare.