La Spagna è oggi una nazione divisa, drammaticamente divisa. Le elezioni politiche svoltesi domenica lo hanno confermato. È difficile dire se questa condizione è il frutto di quel bipolarismo che sostanzialmente ha contraddistinto il paese iberico dal ritorno della democrazia o se invece è l’esito di un percorso culturale che ha nel tempo corroso i cardini della società, una volta imperniati sulla Chiesa cattolica ma ora certamente non più.
Il fatto è che sarà difficilissimo costituire un governo e se qualcuno vi riuscisse avrebbe uno o due voti al massimo di maggioranza in Parlamento, con le conseguenze facili da prevedere in termini di ricatto perenne al premier su qualsiasi votazione. Il ritorno alle urne entro l’anno è in questo momento più che un’ipotesi. Che solo una inedita Grosse Koalition in salsa spagnola, peraltro assai improbabile, potrebbe evitare. Un percorso, quello di ripetute elezioni anticipate, che il sistema politico spagnolo ha già sperimentato, e neppure tanti anni orsono.
La spaccatura è profonda. Non riguarda solo i partiti, ma interessa proprio tutta la società spagnola. Emerge una frattura culturale, esasperata da ambo le parti contendenti. Da un lato un laicismo progressista radicale, dall’altro un tradizionalismo confessionale altrettanto radicale. A livello politico, il primo si è incistato nella sinistra e ne costituisce ormai la ragione fondativa. Una deriva che contraddistinse il Psoe del nuovo millennio, quello del dopo Gonzales guidato da Zapatero e che non ha più abbandonato un partito che se nel nome mantiene orgogliosamente la matrice operaista nella pratica si è caratterizzato innanzitutto per la radicalizzazione del suo impegno per i diritti civili molto più che per quelli sociali. Questo mix non è stato però sufficiente per impedire una radicalizzazione ulteriore, a sinistra, che ha dato luogo dapprima al movimento-partito protestatario di Podemos e ora alla coalizione Sumar, connotata molto a sinistra e imperniata sui temi del femminismo più radicale
La reazione a destra a questa caratterizzazione della Sinistra è stata duplice: da un lato l’ulteriore spinta conservatrice di un Partido Popular che fin dai suoi albori optò per una visione per lo più cattolico-conservatrice nell’interpretazione della società e sostanzialmente liberale in quella economica. Dall’altro una radicalizzazione imperniata sui classici temi della Destra più estrema (facilmente definibile in Spagna come franchismo, ma in realtà una declinazione radicale, appunto, di posizioni opposte a quelle della Sinistra, o – come dicono loro – dello “zapaterismo” ieri, del “sanchismo” oggi). Il nuovo leader popolare è riuscito, forte di un consenso personale in crescita, a recuperare voti perduti in favore dell’estrema destra di Vox quattro anni fa, ma naturalmente per riuscire ha dovuto “forzare” le proprie posizioni in quella direzione. Così come Sanchez, leader che ha dimostrato grande lucidità nel portare il paese al voto anticipato invece di rimanere a rosolare a fuoco lento dopo la sconfitta nelle elezioni amministrative, magari con la scusa degli impegni dovuti alla Presidenza di turno della UE, ha invocato l’impegno della sinistra tutta per evitare il pericolo fascista e oscurantista.
Come se tutto ciò non bastasse, la società spagnola rimane pervasa da spinte secessioniste che seppurminoritarie (anche in Catalogna) mantengono un consenso locale diffuso e producono tensioni continue col governo centrale, portando in Parlamento partiti che con i loro seggi riescono a influenzare la Moncloa, talvolta non poco (come è stato con l’ultimo gabinetto Sanchez), e aggravando così l’irritazione delle regioni che non hanno ancora prodotto formazioni politiche indipendentiste.
Ora, un ulteriore turno elettorale produrrà l’inevitabile ulteriore radicalizzazione del conflitto. Sarebbe necessario un lungo periodo di decantazione che solo – forse – una inedita coalizione Pp-Psoe potrebbe garantire. Ma è quasi impossibile che ciò accada, realisticamente. Eppure se solo ci pensassero sia Feijòo sia Sanchez dovrebbero sapere che chiunque vincerà lo scontro si troverà all’opposizione, dura, metà non solo del Parlamento, ma del Paese. Non certo l’ideale, per governare una realtà tanto complessa.