La transizione del capitalismo esige la risposta della politica. Intervista a Giuseppe Sabella.

Il giovane e brillante economista ha scritto un libro di grande interesse (L’energia del salario, Rubbettino 2023) che nell’intervista qui raccolta trova ampia illustrazione.

Dottor Sabella, già dalle prime pagine del suo libro si coglie come i temi della rivalutazione del lavoro e l’energia determinata dal volano salariale – cioè l’aspetto propositivo della sua analisi – siano in realtà legati a doppio filo al Green Deal, quale manifesto programmatico della Grande Transizione digitale, energetica ed ecologica. Sotteso a queste macro aree tematiche c’è l’esigenza dell’Europa di compattare e rilanciare una sfida a USA e Cina per recuperare il gap che ci separa dalle due superpotenze sotto il profilo industriale ed energetico. Possiamo affermare che questo è un libro che vuole occuparsi dell’Europa che verrà?

Si, come del resto anche Ripartenza verde (Rubbettino 2020), del quale a suo tempo abbiamo parlato su queste pagine e al quale L’energia del salario (Rubbettino 2023) è agganciato. Il Green Deal è proprio questo, un grande programma economico (ancor prima che ambientale) di cui la UE si è faticosamente dotata. Consideriamo infatti le difficoltà che ha l’Europa nell’implementare politiche comuni, cosa che poi abbiamo visto anche sui pacchetti attuativi del Green Deal come il Fit for 55 o il recente accoglimento da parte della UE degli e-fuels, misure entrambe approvate in mezzo a molte polemiche. 

L’Europa ha deciso da qualche anno di rispondere al dominio americano e cinese. Peraltro, le due superpotenze USA e Cina stanno lavorando al consolidamento della domanda interna. Negli USA, se pensiamo ai dazi (2018), questa tendenza è evidente da tempo. In Europa, per il momento, ci si è concentrati sulle importazioni di prodotti ad alta intensità di carbonio, con il Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM). 

È chiaro, tuttavia, che dal 2010 si è esaurita la spinta della globalizzazione, un po’ come conseguenza del crollo di Lehman Brothers, un po’ perché Obama ha avviato il processo di reshoring delle produzioni (2012). Siamo ora in una fase in cui la Cina sta lavorando molto per far ripartire gli scambi, ma è evidente che la globalizzazione ha lasciato il posto a quella che l’Economist ha chiamato Slowbalization, riferendosi appunto al rallentamento degli scambi.

Il dibattito sulla fine della globalizzazione si sta di fatto risolvendo in una presa d’atto dell’emergere di un disaccoppiamento economico che contrappone Est ed Ovest. Più precisamente si argomenta di decoupling avendo presente la de-correlazione tra emissioni di CO2 e crescita del PIL, che si realizza quando il valore economico si associa al miglioramento dell’efficienza energetica e/o alla decarbonizzazione del mix energetico. Rilevando questo passaggio, lei pone l’accento sulla guerra in Ucraina riprendendo una felice intuizione di Giulio Tremonti: «Non è la guerra che pone fine alla globalizzazione, ma è la fine della globalizzazione che porta alla guerra», poiché in realtà non si tratta esplicitamente di una fine bensì di una riconversione della globalizzazione, evidenziando come “pandemia e guerra sono due diversi e cruenti acceleratori di un processo di riconfigurazione del palinsesto multilaterale”.  Quanto e in che modo pandemia e guerra in Ucraina pesano su riconversioni, riassetto di nuovi equilibri, ripartenze e futuro?

Pandemia e crisi ucraina irrompono sulla scena mondiale nella stagione del reshoring, nel mezzo della guerra commerciale tra USA e Cina e nel momento più critico degli scambi internazionali. Il decoupling – di cui recentemente abbiamo iniziato a parlare – è in realtà in atto da almeno un decennio. E corrisponde alla tendenza, da parte dell’Occidente, di tornare autonomo, dopo che per trent’anni abbiamo ritenuto che la Cina dovesse diventare “la grande fabbrica del mondo”. 

Abbiamo, cioè, pensato – anche in modo dispregiativo – di lasciare agli altri il lavoro manuale – che tanto manuale oggi non è nemmeno più – trovandoci a un certo punto in una situazione di dipendenza. E proprio per l’evoluzione della manifattura – sempre più automatizzata, robotizzata e interconnessa – oggi la Cina è il più grande player digitale del mondo. Già prima del covid, la consapevolezza del pericolo cinese era diffusa tra le élite occidentali. Per questo, oggi gli USA vogliono tornare a essere il baricentro manifatturiero del mondo – a me pare impossibile nel breve/medio termine – e l’UE vuole diventare autonoma da un punto di vista industriale ed energetico. 

La transizione dall’oil and gas all’energia rinnovabile, per l’Europa, è proprio questa occasione. In sintesi, guerra e pandemia sono due potenti acceleratori del processo di decoupling: si accresce la distanza tra Est e Ovest, le catene del valore si accorciano sempre di più con il reshoring. E sempre più si delinea la fine dell’interdipendenza – questo è stata la globalizzazione per più di 20 anni – e la contrapposizione tra la piattaforma occidentale e quella asiatica. 

È questa, anche, una contrapposizione politica tra democrazie e autocrazie. In questo senso, mi paiono interessanti le parole di Tremonti: è la fine della globalizzazione che porta alla guerra perché la Russia sente finito il suo rapporto con l’Occidente, in particolare con l’Europa, e sceglie di avvicinarsi alla piattaforma cinese. Per questo, voleva l’Ucraina: Putin sa che il sottosuolo ucraino è ricchissimo di litio e Terre Rare, e sa che Kyiv si è accordata con Bruxelles proprio per lo sviluppo della filiera del litio e per la transizione energetica europea. Ma, in sintesi, la guerra in Ucraina è proprio il primo focolaio della Transizione energetica: che ne sarà di quei Paesi le cui economie dipendono dalle esportazioni di oil and gas? Perché questo è il caso della Russia che reagisce a quelle che per Putin sono le velleità di autonomia dell’Europa.

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