Ogniqualvolta si traccia un confronto tra le classi dirigenti del passato – cioè quando esistevano la politica, i partiti, le culture politiche e i programmi di governo studiati ed elaborati – e quella decollata dopo l’irruzione del populismo grillino e l’avvento dei partiti personali, crescono la rassegnazione e lo sconforto.
Una rassegnazione dovuta ad un fatto specifico che supera tutte le altre valutazioni. Ovvero, e senza alcuna regressione nostalgica, ieri c’era una classe dirigente radicata, espressiva, rappresentativa e, soprattutto, con una personalità politica.
Dalla riconoscibilità alla propaganda
Tanto sul versante nazionale quanto su quello locale, si trattava di una classe dirigente riconosciuta e riconoscibile. Sia a livello politico sia su quello culturale.
Oggi, dopo il contagio trasversale del virus populista, demagogico e antipolitico, le classi dirigenti – se così le vogliamo definire – si sono ridotte a portavoce degli istinti più triviali della pubblica opinione o a messaggeri della propaganda più sfacciata e qualunquista.
Certo, esistono eccezioni, che confermano però, come sempre, la regola. Basti pensare alla personalità riconosciuta a livello internazionale di Giorgia Meloni nel campo della maggioranza di governo o ad alcuni esponenti del Pd che, guarda caso, si sono formati politicamente durante gli anni della Prima Repubblica. Uno su tutti, Dario Franceschini.
Fedeltà al capo o inconsistenza
Dopodiché, soprattutto nei partiti populisti e personali, si conta una serie interminabile di pseudo-dirigenti che si caratterizzano o per la fedeltà acritica nei confronti del capo di turno o per la radicale inconsistenza politica, culturale e progettuale.
Recuperando un’antica battuta di Carlo Donat-Cattin, si tratta di persone che “sono capaci, capacissimi, capaci di tutto”.
E la domanda di fondo, al netto delle profonde differenze storiche, politiche, culturali e sociali, è sempre una: la cosiddetta “classe digerente” che oggi alberga nei partiti e nelle istituzioni, che ruolo avrebbe avuto nella Prima Repubblica?
Cosa avrebbero fatto nella Prima Repubblica?
Per fare un esempio concreto, l’attuale classe dirigente nazionale dei populisti dei 5 Stelle avrebbe occupato lo scranno di segretari comunali o provinciali della Democrazia Cristiana, o del Partito Comunista Italiano, o del Partito Socialista Italiano? Oppure, come è molto probabile, sarebbero stati semplici iscritti e militanti di base, impegnati ad allestire le Feste dell’Amicizia, dell’Unità o dell’Avanti, e poco più?
La differenza di qualità, di autorevolezza e di peso della classe dirigente di allora rispetto a quella contemporanea è tale da rendere inevitabile il confronto.
La qualità non ha scadenza
Certo, quel passato è definitivamente ed irreversibilmente archiviato. Ma la qualità e l’autorevolezza delle classi dirigenti non hanno scadenza temporale.
Quando si è alle prese con un ceto dirigente che, qualche lustro fa, avrebbe allestito gazebo e feste di partito – con tutto il rispetto per quei militanti e volontari – e oggi è al governo o aspira a diventarlo, è evidente concludere che la politica si è drasticamente impoverita, non riscuote più consenso e non riesce a dettare l’agenda di ciò che serve a un Paese complesso e articolato come il nostro.
Per questi motivi, la qualità della classe dirigente è quasi la precondizione affinché la politica torni ad essere protagonista, a livello nazionale come a livello locale.