Riportiamo il testo integrale della Lectio Doctoralis del Presidente della Repubblica in occasione della cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in “Relazioni internazionali ed europee” – Parma, 4 ottobre 2021.
Magnifico Rettore,
Chiarissimi professori, Care studentesse e cari studenti, Autorità, Signore e Signori,
Desidero ringraziare gli organi accademici dell’Università di Parma per l’onore che hanno voluto concedermi con il conferimento della laurea “honoris causa” che ho ricevuto in questa splendida cornice di San Francesco del Prato.
Ringrazio in particolare il Rettore Professor Andrei, il Professor Basini, il Professor D’Aloia per le parole così cortesi con cui mi hanno accolto e presentato; e per le riflessioni che hanno svolto che inducono a ulteriori approfondimenti sia sotto il profilo della vocazione “costituzionale” all’integrazione europea, sia sotto quello dei caratteri inediti delle sfide che si trova ad affrontare la nostra Unione.
Desidero, anzitutto, rendere un doveroso omaggio a questa Università, le cui radici sono antiche di secoli, collegate alle origini del fenomeno di nascita dell’Universitas, fenomeno che produsse una rete culturale unificante dei popoli europei.
A partire da questo vorrei sviluppare alcune riflessioni che riguardano l’università come fondamenta dell’idea di Europa e come motore del suo sviluppo.
Gli accadimenti storici segnano una identità, non soltanto sulle eredità materiali, ma sul vissuto, sull’esperienza, sul sapere di una comunità.
È accaduto nella reciproca interazione tra trasformazioni sociali e università. Nel Novecento, accanto ad altre, l’esperienza del Sessantotto che alcuni di noi hanno attraversato.
La storia delle università è parte rilevante della evoluzione delle nostre società.
Da quasi mille anni le università connotano l’Europa.
Ancor prima che si affermasse l’età moderna le università lavoravano su un terreno che si sarebbe rivelato propedeutico a una “coscienza europea”.
Contribuivano a comporre un corpo unitario. Sperimentavano nuove regole del costume civile, fondato sul diritto, sulle arti, sulla medicina, sulla filosofia.
Non è un caso che l’idea di università si sia sviluppata nel continente europeo e che tuttora questo abbia il numero più alto al mondo di università e di istituzioni per l’alta formazione.
Alla civiltà – e alla storia – europea non è estranea la vicenda delle sue università. Riflettere sull’Europa senza richiamarsi alla loro esperienza – sin dall’epoca della “peregrinatio” dei “clerici vagantes” – significherebbe privarsi di un riferimento essenziale. Così come lo sarebbe non tener conto dello jus commune, elaborato nelle Università, e che per molti secoli è stato il diritto condiviso dalla gran parte dell’Europa continentale, unificata nei principi fondamentali del diritto.
Da corporazioni di soli docenti, o di docenti e studenti, le università hanno, progressivamente, acquisito un ruolo pubblico. Si sono trasformate da corpi ristretti di diritto civile a soggetti aperti di diritto pubblico, portatori di valori destinati a diventare solidi riferimenti.
La loro storia mostra anche quanto siano radicate, nello spirito d’Europa, le questioni delle autonomie e della libertà.
Sorte per lo più per mano dei vescovi da antiche Scuole cattedrali, si sono presto emancipate dalle Chiese e dai Principi.
Sono state in molti casi l’enzima di profonde metamorfosi. Hanno fornito un contributo decisivo allo spirito borghese emerso dalla rinascita delle città dopo l’anno Mille.
Sono state all’incrocio di fenomeni migratori e delle principali trasformazioni economiche e sociali.
In molti casi, più che le alte mura, sono state le università, con i loro collegi e le loro facoltà, a proteggere le città.
Nell’età umanistica il ritorno degli Antichi, con i loro testi e i loro esempi, ha sfidato le facoltà ad abbandonare rigidi schemi argomentativi. L’emergere di prestigiose Accademie e Società scientifiche le ha costrette a riflettere sul rapporto tra scienza nuova e poteri tradizionali.
Nel Seicento e nel Settecento non vi è stata, in Europa, attività più fiorente di quella della trasmissione del sapere, con la costruzione di centinaia di collegi, biblioteche, cliniche, orti botanici, osservatori astronomici, aule.
Nell’Ottocento le università hanno fornito agli Stati moderni una competenza preziosa sui fattori portanti della società industriale. Hanno rafforzato la loro missione formatrice, costruendo l’ossatura delle burocrazie statali e la rete delle competenze industriali e tecnologiche di molte nazioni.
L’incontro delle università con il liberalismo moderno e poi con la democrazia è stato un capitolo di particolare importanza.
Le legislazioni pubbliche hanno messo a dura prova costumi consolidati, in molti Paesi hanno fornito tutela costituzionale alla libertà di pensiero e di ricerca e hanno fornito agli atenei mezzi economici e finanziari sempre più consistenti.
Per le università l’età contemporanea ha rappresentato un nuovo impegno.
La committenza degli Stati, i processi economici e l’evoluzione sociale hanno inciso profondamente nella loro vita, mettendo in crisi un assetto accademico per diversi aspetti vetusto.
Non pochi osservatori indicavano nell’università di massa l’inizio di una decadenza di questa istituzione. Era un giudizio errato: non è stato così. Si è trattato, piuttosto, di un indispensabile adeguamento alle istanze poste da princìpi, finalmente applicati, come quello della identica dignità di ogni essere umano e del riconoscimento del bene sociale rappresentato dall’istruzione.
Tutto questo ha avuto un grande significato per la nostra Repubblica e per l’intera Europa.
L’allargamento dei diritti all’istruzione post-secondaria e l’ampliamento degli accessi dei giovani hanno segnato il passaggio da un modello oligarchico a un modello democratico di società.
I processi di modernizzazione dei sistemi universitari, per qualche aspetto, hanno concorso a produrre asimmetrie tra le università delle diverse nazioni.
La rete delle università è riuscita tuttavia a rimanere fitta quasi ovunque, pur se si è fatta strada l’idea insidiosa che soltanto il perseguimento dell’eccellenza possa rappresentare il futuro dell’alta formazione; talvolta con la spinta a concentrare le risorse su pochi Atenei, rischiando di riprodurre implicitamente un modello di formazione destinata soltanto ad alcuni.
Per le università, come del resto per altre istituzioni, il metodo migliore resta, invece, la costante ricerca della connessione tra la selezione e la valorizzazione delle eccellenze da un lato, e l’impegno continuo per l’ampliamento e la diffusione delle conoscenze dall’altro. Anche per consentire che emergano possibili protagonisti della ricerca e del sapere, senza che venga loro precluso l’accesso agli studi superiori, privando la società di possibili contributi di alto valore.
La meritocrazia non può essere sinonimo di una formula che legittimi chi si trova già in posizione di privilegio, bensì quella di chi aspira a mettersi in gioco.
Un’autentica democrazia sa riconoscere che prima di ogni merito accademico esiste “un merito di vivere”, frutto dell’incontro con la realtà dei fatti e con la spinta a una emancipazione da essi.
Ciascuno affronta la propria esistenza all’interno di una comunità di origine, talora modesta e fragile, ma deve poter scegliere di aspirare a una comunità di intenti le cui porte sono aperte dal sapere.
Un elemento decisivo è sempre stato, e lo è ancor oggi, la cooperazione internazionale negli studi e nella ricerca.
Nei tempi in cui viviamo essa non sarebbe stata possibile in così ampia misura se l’Europa postbellica non avesse intrapreso con coraggio la strada del superamento dei nazionalismi e dello spirito belligerante. E se al posto di sistemi totalitari non fosse emerso un costituzionalismo aperto, capace di comprendere e interpretare le novità, rispettoso della persona umana e del valore della pace, definiti nella nostra Carta repubblicana.
La dimensione internazionale delle università non riguarda, naturalmente, soltanto l’interscambio scientifico o le politiche dirette a promuovere lo sviluppo dell’istruzione superiore e la mobilità internazionale di studenti e di docenti.
Tutto ciò rispondeva alle istanze dell’Atto unico del 1986, che ha istituito la libera circolazione dal 1993 dei cittadini, dei capitali e dei servizi all’interno dell’Unione, ma ha avuto una portata ancor più rilevante.
Avviatosi con la dichiarazione di Parigi del maggio del 1998 tra alcuni dei Paesi fondatori della Ue, il Processo di Bologna, orientato a proporre uno Spazio europeo dell’istruzione superiore, non è stata soltanto la risposta a una domanda di armonizzazione dell’architettura e di interoperabilità dei rispettivi sistemi universitari, ma il segno della volontà delle università di riconciliare la dimensione accademica con quella civile, uscendo da un cono d’ombra in cui rischiavano di trovarsi.
Vorrei aggiungere che questa interazione, questa mobilità tra Atenei è auspicabile che riceva impulso anche all’interno del nostro sistema universitario, rimuovendo meccanismi che ostacolano una migliore circolazione delle idee e delle esperienze.
Non si è eredi di una storia ricca e preziosa senza responsabilità.
Ambire a guidare l’Europa non è possibile se non si ha una chiara visione della complessità dell’umanesimo europeo di cui le università sono parte attiva.
L’umanesimo dell’università è essenzialmente racchiuso in un sentimento per il tempo e per lo spazio più largo degli interessi immediati e che supera vecchi e nuovi confini perché crede che la dignità della persona si misuri prima di tutto nel coraggio del dubbio, nel valore dell’attitudine critica.
Lo spirito umanistico non affonda le proprie radici in valori calati dall’alto, quanto piuttosto nella consapevolezza della necessità della ricerca.
Il metodo investigativo e sanamente polemico, che si praticava nelle prime facoltà, alimentava quelle virtù accademiche che sono tuttora indispensabili e fondamentali: la curiosità, lo spirito critico, l’amore per la competizione intellettuale, ma anche il rispetto e la responsabilità per l’uso del sapere.
L’universum, da cui le università traggono il nome, non è il mondo chiuso tolemaico, e nemmeno il mondo di un astratto infinito: al contrario, è in costante mutamento. Richiede sempre mediazione tra il possibile e l’impossibile. Le idee, si dice, camminano con le gambe degli uomini, ma quegli uomini siamo sempre noi, con i nostri bisogni, le nostre ambizioni e le nostre preoccupazioni.
Non c’è istituzione al mondo, non c’è mercato o impresa in cui, come nell’università, ciascuno possa mettersi alla prova a un livello così alto.
Le opportunità straordinarie che le reti ci mettono a disposizione permettono oggi di muoversi in spazi sempre più ampi dello scibile umano, ma rendono, al tempo stesso, sempre più decisiva la scelta di filoni di ricerca peculiari per poter davvero incidere sulla realtà.
La pandemia ci ha dimostrato, ad esempio, quanto importante sia la ricerca medica, ma anche quanto risolutiva sia la volontà politica di mettere i suoi risultati a disposizione di tutti.
È bene fare tesoro degli insegnamenti tratti in questi due anni difficili. Siamo stati costretti ad affrontare lutti, sofferenze, pesanti limitazioni, e la dura crisi che ne è scaturita condiziona ancora l’economia e gli equilibri sociali.
Ma abbiamo compreso, oltre ogni ragionevole dubbio, quale valore abbiano la conoscenza scientifica, la professionalità degli operatori, la coesione sociale, la risposta comune che viene dal senso civico e dalla coscienza di un destino condiviso.
Il modello sociale europeo è innervato di questi valori, che sono, al tempo stesso, culturali e sociali. Sono anche civili, indicati nella vita quotidiana. Le istituzioni europee e le politiche pubbliche dell’Unione ne dovranno sempre più tenere conto.
L’Europa ha compiuta una svolta in questi mesi, gravosamente maturata sin dalle prime fasi della diffusione pandemica e poi culminata con il Next Generation EU. Ha mutato alcuni dei paradigmi che avevano condizionato le politiche continentali nelle precedenti crisi degli anni Duemila, penalizzando fortemente i Paesi più deboli.
È stata per l’Unione Europea una lezione che ha sollecitato una visione lungimirante: far diventare questo Piano di ripartenza la spina dorsale di una nuova, più solida e più equa, integrazione del Continente.
Si tratta di un salto di qualità, capace di rafforzare ulteriormente i legami già esistenti tra i popoli e gli Stati dell’Unione.
Dobbiamo attenderci e contribuire a innovazioni profonde, sulle modalità del lavoro e della produzione, sull’uso delle tecnologie, facendo in modo che la distribuzione dei saperi non incida sull’effettivo esercizio dei diritti dei cittadini, col rischio di nuove disuguaglianze.
La coscienza di una causa comune contribuirà a definire ancora meglio quel concetto di “demos” europeo che già ha messo profonde e irreversibili radici.
Libertà e uguaglianza, democrazia e solidarietà rappresentano i pilastri di questa Europa, le cui “vocazioni fondatrici”, come scrive Edgar Morin, sono proprio quella culturale e quella politica, intesa nel senso di un continuo “progettare, rigenerare, rivitalizzare, sviluppare e reincarnare la democrazia”.
Il carattere di apertura dell’Europa, la ricchezza e le diversità insite nel suo humus, non sono – continua Morin – “una mancanza di rigore”, piuttosto rappresentano oggi “l’unico rigore possibile”.
Jurgen Habermas ha descritto con nettezza come lo stesso “riconoscimento delle differenze – il reciproco riconoscimento dell´altro nella sua alterità – può diventare il contrassegno di un´identità comune”.
Potremmo aggiungere: di quel che la storia ci ha posto in comune.
Per queste ragioni, all’Europa di domani, l’università europea può dare molto. Anche nel sostenere questo vitale processo.
Il professor D’Aloia, poc’anzi, ha citato la felice profezia di Jean Monnet, quella per cui l’Europa si costruirà nelle crisi. È stato così sovente, anche in questo periodo con il sorgere di una “Unione della salute”. Non possiamo comunque immaginare il futuro dei popoli dell’Unione Europea come un succedersi di crisi alle quali cercare di dare, di volta in volta, risposte frutto dell’emergenza.
Al nostro orizzonte possiamo scorgere un’Europa più integrata, nel governo delle sue istituzioni e nella solidarietà delle politiche pubbliche. Al tempo stesso – e non senza contraddizioni al suo interno – si profila un’Europa consapevole che il carattere di apertura culturale che va oltre le frontiere, costituisce l’ossatura del proprio “soft power”.
Una risorsa preziosa nel mondo globale che, diversamente, lascerebbe spazi assai più angusti a un continente europeo che fosse privo del senso del valore della propria civiltà.
In questi anni gli atenei e le istituzioni europee hanno lavorato in questa direzione. Con varie reti di università europee che hanno collaborazioni consolidate, corsi di laurea comuni, che svolgono insieme attività di ricerca. È avvenuto a partire dall’Erasmus, i cui programmi, potenziati per gli studenti, speriamo che presto riprendano a pieno regime, anzi che si integrino con scambi di ricerca e di esperienze lavorative.
I giovani Erasmus – le generazioni Erasmus come ormai vengono chiamate comunemente – hanno ripreso una antica e rilevante tradizione universitaria. Sono diventati protagonisti di esperienze di vita, oltre che di studio. Esperienze che hanno reso forte la loro consapevolezza di essere anche cittadini europei. Hanno avuto prova di un ethos condiviso e lo hanno incrementato nel dialogo, nell’amicizia, nello studio comune.
L’Europa può giovarsi dell’università anche sul piano politico e civile per sperimentare forme più sofisticate di cittadinanza nella libertà di studio e di ricerca.
Tutto ciò vale per l’Italia, dove esiste un grande paradosso: siamo la nazione che ha dato origine, forza e continuità all’idea di università – e l’Ateneo di Parma vanta questo titolo, insieme ad altri antichi atenei – ma il nostro Paese si trova in coda, purtroppo, per numero di laureati, anche per investimenti. La nostra università non risulta attrattiva come meriterebbe. Potremmo dire: non è amata come dovrebbe.
Sta a noi utilizzare anche le disponibilità del Piano di ripartenza per dare maggior forza alle università e renderle ancor più una risorsa essenziale per lo sviluppo del Paese.
È un impegno delle istituzioni, delle università nella loro autonomia, delle forze sociali e di quelle economiche, insomma di tutte le parti dinamiche di quelle articolazioni che rendono ricca la vita delle nostre comunità.
Non separare il destino della democrazia da quello dell’alta cultura è una chiave indispensabile per affrontare le trasformazioni della società globale.
Talvolta tende a prevalere il fascino di una visione che immagina il sistema universitario come un’impresa, secondo una logica di carattere economico. Ma il “profitto” che si può trarre dall’Università è la crescita del capitale umano, vera forza del Paese, nonché i frutti della ricerca da porre a disposizione dell’intera comunità.
Per immaginare l’Europa del domani può esserci di grande aiuto ritornare alle origini della convivenza europea.
L’università è uno degli elementi di fondo di queste origini, tra i più interessanti.
Forse è giunto il momento per chiedere che le istituzioni europee inseriscano nella loro agenda, accanto alle grandi questioni incompiute della sicurezza e della armonizzazione economica e fiscale, anche il tema della dimensione universitaria.
Appare maturo il tempo di un diritto universitario europeo, inserito se necessario nei Trattati, così da porre il nostro continente all’avanguardia nel fornire un supplemento di garanzie, se occorre anche speciali e temporanee, agli studenti e ai docenti delle università, nel loro percorso.
Si tratta di questione che deve essere proposta e può trovare posto nel percorso di riflessione della Conferenza sul futuro dell’Europa.
È la “sovranità condivisa” della cultura che unisce ogni persona ai suoi simili, rende coese le comunità, ne rafforza l’autonomia.
Un sentiero che va coraggiosamente percorso, avendo il coraggio – appunto – di trasformare le politiche adottate in comune in Europa, in regole di istituzioni democratiche.
Nel discorso pronunciato il 21 aprile del 1954 a Parigi, alla Conferenza Parlamentare Europea, Alcide De Gasperi, che aveva visto naufragare il tentativo di impostare una politica comune di sicurezza e di difesa, non attenuò la fiducia nell’orizzonte europeo e, pur riconoscendo le difficoltà, rilanciò la sfida del passaggio dalla “piccola Europa” dei sei Paesi che avevano inteso avviare il processo dell’integrazione a un’Europa “di più vasti orizzonti”.
Con riferimento alle grandi correnti di pensiero della nostra storia politica, ebbe a dire che “queste forze spirituali rimarrebbero inerti negli Archivi e nei Musei se l’idea cessasse di incarnarsi nella realtà viva di una libera democrazia che, ricorrendo alla ragione e all’esperienza, si dedichi alla ricerca della giustizia sociale”.
Ebbene, “ragione” ed “esperienza” sono ancora le parole chiave del nostro futuro, in quella che De Gasperi definì “nostra Patria Europa”.
Giuseppe Mazzini – del quale il prossimo anno celebreremo i 150 anni dalla morte – ci dice “che la patria è la casa dell’uomo, non dello schiavo”.
La Patria Europa, con le sue università, può essere l’approdo anche per chi, qui giunto o che giunge tra noi, vuole, attraverso lo studio e il confronto con i maestri, sfuggire alle schiavitù che ci circondano.
Democrazia e libertà hanno bisogno del sapere che le università alimentano, non possono rinunciare al confronto delle idee e delle conoscenze che dalle università trae origine e impulso.
Non possono fare a meno della ricerca e delle scienze – preziose e fondamentali – e nel contempo della cultura delle idee, necessaria per governare le tecniche, per coglierne l’impatto sull’organizzazione delle società e sui diritti umani; e per definirne i confini, per renderle sempre più al servizio della persona e della comunità.
Ogni tempo propone le sue sfide; e nuovi compiti scaturiscono, di conseguenza, per ciascuno di noi, anzitutto per la cultura.
Le università sono state, nei secoli, motori dell’Europa; che oggi è la nostra casa.
L’auspicio è che sappiano continuare ad esserlo anche nel futuro.
Grazie, Magnifico Rettore.