Non bastano più le pur giuste, doverose e coraggiose dichiarazioni di principio sulla necessità di rispettare i diritti umani dei disperati che cercano di lasciare le coste africane per raggiungere l’Europa attraverso il nostro Paese.

È vero: c’è uno spartiacque etico che separa chi avverte il dovere di salvare vite umane – come ricorda sempre Papa Francesco – da chi questo dovere non lo avverte, per cinismo, calcolo o paura.

Ma il compito della politica e delle Istituzioni è più esigente. Richiede la capacità di gestire le situazioni e di trovare misure ragionevoli per far sì che questo imperativo morale (e, per chi crede, anche religioso) sia perseguito con efficacia, razionalità e sostenibilità sociale.

Abbiamo bisogno di profeti ma, assieme, di capaci gestori delle emergenze e di lucidi lettori di ciò che succede.

Certo, ci servono profeti, come Francesco e, per fortuna, tanti altri, noti e meno noti, perché altrimenti i nostri cuori si induriscono, la nostra resistenza alle tentazioni della paura diventa via via più flebile e finiamo con il giustificare ogni forma di egoismo collettivo.

Ma senza una visione strategica e senza capacità politica ed operativa, la battaglia è persa.

L’alternativa alla “non politica” della destra in tema di immigrazione (chiusura dei porti, blocco navale, allarme invasione, criminalizzazione degli immigrati e via dicendo) non può essere la passiva osservazione di ciò che accade.

Europa e Governo italiano non stanno dimostrando di possedere visione e capacità di gestione adeguate alla bisogna.

Quanto alla visione, basti pensare alla Tunisia, Paese dal quale partono molti dei disperati che in questi giorni sbarcano a Lampedusa e sulle altre coste italiane.

Da anni tutti sapevano che la Tunisia era l’unico Paese della sponda Sud del Mediterraneo ad aver imboccato la strada difficile della democrazia, dopo la stagione altrove fallimentare delle primavere arabe.

E tutti sapevano che senza una sorta di “Piano Marshall” europeo a favore della crescita economica e sociale della Tunisia questa anomalia sarebbe stata travolta dal fondamentalismo islamico e dalla spinta alla emigrazione di massa verso l’Europa.

Non si è fatto quasi nulla. Anzi, siamo stati perfino capaci di ingaggiare una sorta di “guerra dell’olio”, per impedire ai coltivatori tunisini di vendere il loro prodotto in Europa ed abbiamo di fatto azzerato o quasi i programmi di cooperazione allo sviluppo annunciati nei giorni delle rivolte democratiche promosse dalle donne, dai giovani e dalla società civile tunisina.

Cosi come abbiamo tolto dalle nostre priorità i progetti di finanziamento destinati a sostenere lo sviluppo economico e sociale di molti Paese africani, quando invece (come hanno ben capito i cinesi) una crescente parte dell’Africa stava diventando un possibile partner anche economico.

Ora raccogliamo i frutti di questa miopia. E li raccogliamo sul piano geopolitico, nonché su quello della penetrazione del fondamentalismo islamico e della spinta migratoria.

Quanto alla capacità di gestione, non siamo stati capaci di organizzare un sistema europeo di screening giuridico sul territorio della sponda sud del Mediterraneo, necessario ai fini di adeguati e sicuri canali umanitari per l’ingresso in Europa dei profughi aventi diritto di asilo e – men che meno – di prevedere e governare quote di ingresso regolare dei lavoratori dei quali i nostri sistemi produttivi hanno assoluto bisogno.

Abbiamo fatto come gli struzzi che mettono la testa sotto la sabbia. Abbiamo immaginato di poter fermare il mare con secchiello e paletta e poi, visto che non ci siamo riusciti, abbiamo decretato (l’ha fatto l’ex ministro Salvini) che gli immigrati non regolari, sul nostro territorio, semplicemente “non esistono”. Ed invece esistono. Ed esisteranno.

Come esistono i problemi sociali e di convivenza che questa “non gestione” del fenomeno ha comportato e comporterà.

Chi crede nel valore della accoglienza e di una società aperta non deve negarli.

Sarebbe sciocco e, oltretutto, sarebbe un grande favore alla destra xenofoba e sovranista. Deve invece riconoscerli, condividerli col popolo ed affrontarli.

Invece che gridare inutilmente alla luna, come fa molta parte della destra, occorre predisporre una risposta concreta e responsabile.

Solidarietà ed accoglienza, ma rispetto delle regole, di tutte le regole; progetti di lavori socialmente utili ed anche esperienze di lavoro nelle imprese per i richiedenti asilo; impegno per l’integrazione linguistica e comunitaria; rilancio di una politica di cooperazione allo sviluppo verso i paesi di provenienza, con iniziative di accompagnamento, per chi così sceglie, ad un rientro assistito.

Tante realtà locali italiane potrebbero essere laboratori positivi e creativi. I territori capaci di affrontare questa sfida saranno non solo più “giusti”, ma anche più competitivi e sicuri. Perché sapranno trasformare le emergenze in opportunità.

Abbiamo una grande risorsa per capire meglio la necessità di affrontare con coraggio, lungimiranza e saggezza questa sfida: sono le migliaia di ragazze e ragazzi italiani (pienamente italiani) delle seconde e terze generazioni di immigrati. Si tratta di cittadini che talvolta non sono considerati “né carne, né pesce”. Essi sono in realtà le nostre vedette verso la società del futuro. Hanno il compito di evitarci gli scogli perigliosi e di aiutarci nella rotta.

Ascoltiamoli e valorizziamoli, così saremo più capaci di interpretare il senso profondo di un Paese che muore di banalità e di chiusura, mentre vive di scommesse ardite e ambiziose.

Anche questo fa parte della “missione” di una nuova formazione politica di ispirazione popolare.