L’Osservatore Romano | Il centro Caritas alla Stazione Termini fa 40 anni

Se al Poliambulatorio non ci fosse stato quest’approccio inclusivo, alla base di una visione più equa ed accessibile della sanità, anche M., un giovane immigrato proveniente dal Mali, forse non ce l’avrebbe fatta.

Lorena Crisafulli

 

Al civico 97 di via Marsala, nei locali sottostanti al binario 1 della stazione Termini, c’è un luogo che ha fatto dell’assistenza sanitaria agli immigrati la sua vocazione, è il Poliambulatorio della Caritas che quest’anno compie 40 anni. «L’ambulatorio nasce nel 1983 a Ostia, subito dopo si trasferisce nella Basilica del Sacro Cuore di Gesù, dove i salesiani avevano creato uno spazio per assistere gli immigrati presenti nella Capitale, senza permesso di soggiorno — ricorda Salvatore Geraci, medico, responsabile dell’area sanitaria Caritas di Roma —. A quei tempi nessuna legge regolava l’immigrazione, la prima è stata emanata nel 1986, e don Luigi Di Liegro, fondatore e direttore della Caritas diocesana di Roma, intuì che l’immigrazione non era un fenomeno transitorio come si pensava fino agli anni ’90, e ci sarebbe stato un cambiamento epocale nella società. Così fece aprire dei servizi destinati agli immigrati, come il centro di ascolto stranieri e l’ambulatorio».

 

Dal Poliambulatorio romano, attivo dal lunedì al venerdì dalle 16 alle 19, grazie all’impegno di operatori e volontari, medici, infermieri, farmacisti, studenti di medicina, che si adoperano ogni giorno nell’assistenza sanitaria di persone vulnerabili, in 40 anni di attività sono passati 110 mila pazienti e ogni anno sono circa 2000. «Qui tutti i pomeriggi si fa il giro del mondo, solo nel 2022 abbiamo ospitato immigrati di 88 paesi diversi — prosegue Geraci —. Ci ritroviamo di fronte a esigenze, difficoltà, culture, ogni volta nuove. Negli anni la complessità assistenziale è aumentata e la nostra utenza è diminuita, perché abbiamo voluto che il servizio sanitario pubblico si facesse carico delle persone senza permesso di soggiorno; oggi nel Lazio sono 35 gli ambulatori pubblici dedicati a loro».

 

Di recente, coloro che si rivolgono al Poliambulatorio della Caritas provengono soprattutto dall’Ucraina, a seguire, da Perù, Romania, Somalia, Bangladesh. Alcuni sono in fuga da guerre e carestie, altri arrivano in Italia per ricongiungersi ai parenti che li hanno preceduti, tutti accomunati dalla voglia di rifarsi una vita qui o altrove. «L’idea è quella di accudirli in un momento temporaneo di fragilità, perché speriamo che acquisiscano sempre maggiori diritti, diventino regolari, abbiano il loro medico di base e non abbiano più bisogno di noi — auspica Geraci —. All’inizio si presentavano situazioni emergenziali dovute a patologie infettive, erano casi transitori, poi, man mano che l’immigrazione come fenomeno sporadico è diventato sistematico, sono arrivati pazienti con patologie croniche ed è nata l’esigenza di fornire loro altre prestazioni». Così, se prima veniva offerta assistenza solo nell’ambito della medicina generale, ovvero quella di base, gradualmente il centro ha sviluppato altre aree, tra cui cardiologia, ginecologia, dermatologia, neurologia, ortopedia e diabetologia. «Ci sono quattro stanze di ambulatorio con due ecografi, frutto di donazioni, e una medicheria dove vengono curate le ulcere degli arti inferiori di persone senza fissa dimora, italiane e straniere, in condizioni di marginalità — spiega la dott.ssa Giulia Civitelli, direttore sanitario del Poliambulatorio —. La prima cosa che si fa è lavare loro i piedi, un gesto simbolico a livello cristiano, oltre che necessario dal punto di vista igienico-sanitario. Dopo la medicazione, forniamo loro calzini puliti ricevuti in donazione grazie ad alcune campagne di solidarietà». «Qui arrivano anche casi più complessi dal punto di vista medico, con patologie gravi come tumori o malattie mentali, a volte reattive alle scarse politiche di inclusione — sottolinea Geraci. Il sistema che si occupa di salute mentale è molto affaticato e a volte la residenza, nonostante non sia requisito necessario per accedere ai servizi, viene utilizzata come pretesto per ostacolare l’accoglienza».

 

Nella cura del paziente l’aspetto sociale è cruciale, poiché chi affronta determinate difficoltà può subire ripercussioni sullo stato di salute, basti pensare all’impatto drammatico che ha sull’individuo la mancanza di una casa, di un lavoro, di una rete di affetti. «Il nuovo paradigma della medicina è quello dei “determinanti sociali della salute”, che è condizionata da una serie di fattori in grado di provocare patologie anche permanenti» fa notare Geraci. «Nel mondo dell’immigrazione si assiste al cosiddetto “effetto migrante sano”, ovvero una persona giovane, fisicamente più forte e con maggiori possibilità lavorative, che non appena giunge in un paese con scarse politiche di accoglienza rischia di perdere il suo patrimonio di salute — chiarisce Civitelli –. Per capire cosa sia successo dal momento dell’arrivo in Italia e calcolare l’intervallo di benessere, gli chiediamo quando si è sottoposto alla prima visita medica». Infatti, nella scheda informativa che ognuno di loro compila, varcata la soglia del Poliambulatorio dopo aver fatto la fila perché dalla pandemia gli ingressi sono contingentati, viene richiesto se la patologia di cui soffre era presente prima di arrivare in Italia o è sorta in seguito, in modo da comprendere come si è svolto il lasso di tempo tra il prima e il dopo. «Siamo una porta aperta sulla strada e quando l’ambulatorio è attivo, la porta si apre a chi ha bisogno. Non a caso, all’ingresso c’è un bancone di forma semicircolare che rappresenta l’abbraccio dell’accoglienza, perché il nostro motto è “accogliere è già curare”.

 

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