Prof. Caracciolo è in edicola e nelle librerie (ma anche on line) il numero 3/2020 della prestigiosa Rivista di studi geopolitici LIMES, che Lei dirige. Dal titolo – “Il mondo virato”- si intuisce quasi una sorta di monografia sulle prime conseguenze della pandemia Covid-19, a livello geopolitico. Oltre agli effetti immediati sul piano sanitario a livello globale si delineano dunque nuovi scenari nella politica e nell’economia mondiale?
Il tentativo avviato con il volume “Il mondo virato” e che proseguirà con il prossimo, “Il vincolo interno”, in uscita il 15 maggio, specificamente mirato alla strategia italiana in questa fase, è di provare a intuire gli impatti geopolitici del virus. Il punto centrale è che non si tratta geopoliticamente di una pandemia, ma di una epidemia selettiva, che colpisce in tempi, modi e con effetti diversi in vari paesi/aree. Anche ma non solo in base alle loro capacità di reazione sanitaria. Così in questa fase la Cina ha un vantaggio comparato sugli Stati Uniti e in minor misura sugli europei. L’Italia vedrà la sua influenza geopolitica drasticamente ridotta se non profitterà della crisi per rivedere il suo approccio e la sua cultura strategica, troppo remissiva e puramente reattiva.
Il volume traccia infatti un primo bilancio dell’impatto prodotto al Coronavirus sugli equilibri, le strategie e i posizionamenti strategici a livello globale: quali sono le evidenze emergenti? Quali i possibili scompaginamenti degli equilibri geopolitici e geoeconomici in atto?
Tutto dipenderà da come Usa e Cina usciranno dalla crisi, e quando. La competizione fra i due colossi si sta riscaldando. Il tentativo di decoupling (disingaggio) americano dalla Cina, riportando a casa produzioni e tecnologie per poterla meglio colpire, sarà di ardua realizzazione. E il nazionalismo cinese è al suo massimo. Il nostro futuro dipenderà largamente dalla curva di questo duello.
Possiamo definire – dopo l’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 , la crisi finanziaria del 2008 – questa pandemia che si è scatenata come una tempesta planetaria , il terzo macro- fenomeno da analizzare e classificare come conseguenza diretta o indiretta della globalizzazione?
Terzo ma solo in senso temporale. Gli effetti geopolitici di questa emergenza potrebbero rivelarsi financo maggiori degli altri due. Oppure stemperarsi nel giro di pochi anni. Certo è che il mondo non ha ancora assorbito i due colpi precedenti. Questo appesantisce il terzo.
In un Rapporto ONU ripreso in sede OCSE nell’aprile/maggio 2019 dai Paesi aderenti all’Ipbes , viene proposto uno scenario catastrofico: il sesto declino della vita sul pianeta, il primo per mano dell’uomo. Un fenomeno che è iniziato con un lento e graduale processo di estinzione delle biodiversità, fino alla scomparsa di 1/8 delle specie viventi sul pianeta. A questo si aggiunga una interessante riflessione rilasciata a questo giornale dal Prof. Arnaldo Benini – Emerito a Zurigo, che evidenzia il porsi di un problema di sostenibilità della presenza dell’uomo in rapporto alla natura, che sistematicamente viene violata, alterata, cancellata, inquinata. Riprendendo gli studi del biologo Edward Wilson, una popolazione di 7 miliardi e mezzo di abitanti (che cresce di 70 milioni all’anno) è vicina all’incompatibilità con l’ambiente. Questa può essere una spiegazione delle mutazioni genetiche per zoonosi che provocano l’insorgenza delle epidemie, tuttavia – in via generale – che conseguenze determina tale situazione sul quadro demografico e geopolitico a livello mondiale?
Non ho competenza specifica per entrare in questi aspetti scientifici. Ma certamente l’impatto di una popolazione di 7 miliardi e mezzo di umani, destinati a diventare forse 11 a fine secolo, significa uno stravolgimento culturale, economico, sanitario e geopolitico. Soprattutto, si mette in evidenza il divario fra i continenti. Prendiamo il caso di Europa e Africa: noi siamo meno di 700 milioni, con una età mediana di oltre 40 anni, gli africani sono circa 1 miliardo e 300 milioni, con un’età mediana di poco superiore ai 20. O troviamo un bilanciamento, o saremo costretti a pagare seriamente questo differenziale. A cominciare dall’impatto fra popolazioni troppo diverse per età prima ancora che per storia e cultura per poter convivere proficuamente.
Il Covid-19 analizza le ricadute della pandemia sulla principale dinamica geopolitica della nostra fase storica: il confronto strategico tra la potenza ascendente e l’egemone affermato, tra la CINA e gli USA. Quali scenari si vanno configurando?
Pandemia è un termine usato dalla burocrazia sanitaria e certificato dall’Oms. In geopolitica non ha senso parlare di pandemia, ossia di un morbo che colpisce tutti. In realtà, alcuni paesi sono stati colpiti maggiormente, altri meno, e comunque in modo asincrono. Come detto, la Cina ha oggi un vantaggio nei confronti degli Stati Uniti, perché ha superato la (prima?) fase acuta, mentre gli Usa sono dentro fino al collo. In prospettiva, il morbo è destinato a inasprire il contrasto Usa-Cina e a favorire il disingaggio americano dall’economia cinese. Con gravi ripercussioni per tutti.
Come sta affrontando l’Europa il fenomeno pandemico? Sotto almeno tre profili di considerazione – quello sanitario, quello politico e quello economico- si evince un quadro frantumato e si profilano posizioni disallineate e di difficile conciliazione e ricomposizione. Dopo il 70° anniversario della Nato i Paesi dell’U.E. esprimono posizioni e interessi differenziati, si delineano alleanze interne a matrice generativa fondamentalmente economica. Siamo in una fase di estrema criticità del vecchio continente che rischia di essere stritolato dalle strategie espansive delle superpotenze (USA- CINA – RUSSIA) o, facendo un passo indietro, i singoli Stati dell’U.E. troveranno ragioni e motivi anche economici per ricompattare una strategia condivisa?
Come sempre, gli europei reagiscono in ordine sparso alle crisi perché i loro interessi e le loro culture sono diversi. Le risposte avvengono su base strettamente nazionale. Di qui si diramano alla ricerca di intese ad hoc, dove possibile. In genere, vediamo un blocco settentrionale intorno alla Germania, con l’Olanda quale avanguardia, indisponibile a forme di gestione para-federale della crisi, anche con strumenti utili alla mutualizzazione dei debiti. Dall’altra un blocco meridionale, composto da Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, con la Francia in posizione intermedia, che chiede maggiore solidarietà e soprattutto fondi rapidi, abbondanti e a basso tasso di interesse. In questa faglia, mentre gli Usa dormono, si stanno inserendo a loro modo Russia e Cina. Ciò garantisce che a medio termine i rapporti di forza in Europa muteranno sensibilmente.
Le pesanti ricadute economiche e sul mondo del lavoro di una epidemia fortemente presente a livello nazionale, la necessità di finanziare la ripresa pur passando attraverso un indebitamento con l’Europa e la finanza stimolano il dibattito sulle misure da adottare. Il MES viene messo in discussione all’interno della stessa maggioranza. Si parla di fase 2 che stenta a decollare. L’Italia rischia di diventare un boccone ghiotto per chi vuole acquistare asset strategici del Paese a buon mercato?
L’Italia è esattamente nella condizione che Lei dipinge. Ciò comporta tre risposte. Primo, nazionalizzare o comunque proteggere i più importanti asset strategici prima che cadano in altre mani. Secondo, ottenere fondi abbondanti e a lunga maturazione in sede europea, per impostare un piano di rilancio economico. Terzo, strutturare il ritorno all’economia mista, equilibrata sintesi di pubblico e privato, sciaguratamente abbandonata quarant’anni fa.
Con il forte dissenso degli altri Stati dell’U.E. il 23 marzo 2019 Italia e Cina avevano sottoscritto un Memorandum tendente a favorire gli scambi commerciali tra i due Paesi. Come valuta l’incidenza e le prospettive generate dal punto 27 che prevede che le aree portuali di Genova e Trieste diventino i terminali europei della cd. “via della seta”? Non rischiamo forse di inglobare due “cavalli di Troia” nel ventre molle dell’Europa e di trattare accordi e flussi commerciali da una posizione di debolezza rispetto alla politica espansiva della Cina?
Il rischio c’è. Può essere limitato e reso accettabile anzitutto limitando gli investimenti cinesi agli aspetti strettamente commerciali e infrastrutturali. E soprattutto diversificando l’ingresso di partner esteri nelle nostre strutture portuali, cosa che già sta avvenendo. Infine, costruendo una regia centrale, nazionale, per evitare che ci si pesti i piedi fra autorità portuali.
Secondo il Sole24 ore uno studio dell’Università di Southampton circa i colpevoli ritardi con cui Pechino ha informato l’OMS e il mondo sulla diffusione del contagio “ha stimato che se la Cina avesse agìto con tre settimane di anticipo rispetto… alla data del 23 gennaio (di ufficializzazione della notizia), il numero di casi complessivi di Covid-19 si sarebbe potuto ridurre del 95%. Ma anche una sola settimana avrebbe ridotto il contagio globale del 66%”. Lei pensa che a cominciare dai Paesi del G7 si studieranno strategie risarcitorie, portando la Cina davanti ad una Corte internazionale? O tutto sarà metabolizzato nell’inazione, mediato dalle diplomazie e compensato da accordi e lusinghe commerciali ?
Le strategie risarcitorie non credo abbiano grande possibilità di successo. Sono però un segnale che paesi non amici della Cina intendono lanciare a Pechino. In ciò supportati da Washington. L’Italia non sarà fra questi. A conferma della sua recente svolta filocinese.