L’umano si perfeziona solo nella relazione

Recensione del libro di Calogero Caltagirone, "Sono me grazie a te". Per un'antropologia e un'etica delle relazioni umane, Studium Edizioni, Roma 2022, pp. 246. Il testo appare sull’ultimo numero della rivista “Filosofia Morale”.

[…] Leggiamo la preoccupazione per un futuro tecnologico che faccia diventare realtà le teorie del postumano e del transumano, proprio quelle convinzioni che spingono in avanti la questione della soggettività servendosi delle biotecnologie, che negano l’opposizione tra natura e cultura e per le quali “nessuna architettura naturale vincola la progettazione del sistema” (p. 69): pensare a qualsiasi oggetto o persona in termini di montaggio e riassemblaggio, di commistione tra organico e artificiale, significa perdere i contorni e i confini che identificano sia l’umano che il cibernetico, dando vita a delle “identità mutanti” per le quali va ripensata anche la modalità della relazione. “L’essere umano – scrive ancora Caltagirone – diventa mero strumento all’interno dell’apparato tecnico, perché la tecnica non si propone fini e non si muove verso scopi, ma verso i risultati delle procedure”. Dalla ragione strumentale ai corpi strumentali, l’apoteosi del funzionamento tecnologico si realizza nelle strutture deterministiche della cultura gestita “da paradigmi, apparati, schemi concettuali tipici di una mentalità tecnocratica e orientata più all’agire strategico e al fare, che al dialogo e all’intesa” (p. 72). Del resto, quando ci si guarda intorno, non si ha l’impressione che ormai già i sistemi della produzione e dell’organizzazione sociale a tutti i livelli, perfino i processi di produzione delle idee, dello scambio dei significati, dei contenuti delle arti, e la stessa ricerca scientifica e umanistica, ci vogliano tutti automi, tutti esecutori irrelati, indifferenti e autocentrati di un medesimo processo stabilito altrove? Un “altrove” che è insensibile alle nostre differenze non codificate e alle nostre peculiarità non trasformate in dati: il passo alla sostituzione robotica risulterebbe già agevolato da queste pratiche dell’impersonalità e dal disconoscimento della relazionalità autentica. Questi nostri timori trovano conferma, purtroppo, nelle disamine inquiete di Caltagirone.

Tuttavia, nel secondo capitolo, lo scenario muta e, come leggiamo già nell’intoduzione, si fa avanti la “speranza”, nella descrizione poetica che ne fece Charles Péguy, per il quale essa “sembra una cosina da nulla, questa speranza bambina, immortale […], ma è proprio questa speranza che attraverserà i mondi”. Se ci facciamo prendere per mano dalla speranza, allora ci torna il coraggio di confrontarci con il vocabolario delle relazioni umane, con la loro “struttura, articolazioni e coordinate”: la fiducia, la confidenza, il riconoscimento, l’apertura alla temporalità, la cura, la responsabilità. Caltagirone ne approfondisce le tonalità e le risonanze, attraverso gli autori che gli sono cari – Nédoncelle, Mounier, Ricoeur, Apel – citando spesso i pensatori e i colleghi italiani che si riconoscono nell’appartenenza alla cultura cattolica, ma anche confrontandosi e raccogliendo i contributi di chi si impegna nella difesa dell’umano-che-è-comune senza alcuna attribuzione religiosa. Alla fine, la risposta ai riduzionismi contemporanei che pregiudicano una comprensione integrale dell’umano, e alla intersoggettività proposta come forma sostitutiva ed esauriente della relazione, sta in un “trascendentale”, in un radicamento metafisico dell’antropologico e dell’etico in prospettiva relazionale:

 

[Assumere il relazionale come trascendentale dell’umano] significa, da una parte, riconoscere la relazione come potenzialità costitutiva inscritta nella natura umana e non soltanto come bisogno di natura psicologica o sociale, dall’altra permettere di ripensare l’intero dell’umano in chiave relazionale, convinti che tutto ciò che nell’essere, nell’operare e agire umano, è prettamente umano, si sviluppa, si accresce, si perfeziona realmente soltanto in contesti relazionali reciproci e quindi umani e umananti (pp. 229-230).

 

In conclusione, tornando alle nostre caramelle, non ci pentiamo di averle assaggiate: perché ce lo hanno chiesto quei bambini, e soprattutto perché non possiamo sottrarci a chi ci guarda.

 

Per leggere, con l’intera rivista, il testo integrale della recensione

 

https://mimesisjournals.com/ojs/index.php/MF/issue/view/211?fbclid=IwAR0KWbdIDHguLPlgxg7f2m23F_cumJ2qH_cpgHIEaqpuwdFblhYE7Xaqteo