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Nel discorso con cui Franklin Delano Roosevelt inaugurò la sua presidenza degli Stati Uniti – giusto novant’anni fa – utilizzò una locuzione divenuta, giustamente, famosa, che calza a proposito: “la sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, l’irragionevole e ingiustificato terrore senza nome che paralizza gli sforzi necessari a convertire la ritirata in progresso”. Si era nell’ambito della Grande depressione economica del 1929 e si fu capaci di passare al New Deal, al “nuovo patto” che vide gli Stati Uniti affrontare i drammatici problemi economici e occupazionali che li avevano devastati, assumendo la leadership del mondo libero. Oggi siamo in una condizione, fortunatamente, ben diversa, che ci conduce, tuttavia, a richiamare il legame, per quanto possa a molti apparire scontato, tra economia e democrazia. La crisi del capitalismo, in quegli anni, mise in discussione anche gli ordini politici esistenti, registrando un diffuso malcontento verso la democrazia, ritenuta noiosa e inefficace rispetto ai totalitarismi che si erano affacciati e che si stavano consolidando.
Gli argomenti non erano nuovi, qualche studioso li indicava nella ricerca di un sentimento di unità perduto, che fosse incentrato sulla autenticità culturale, sulla originalità delle proposte di comunismo e fascismo, sulla creazione di “uno spazio affrancato – così si diceva – dalle pressioni della mercificazione e dalle grigie logiche dei mercati”. Così testualmente ricorda Harry Harootunian, storico americano.
Le idee dovevano essere davvero confuse se una casa automobilistica americana, la Studebaker, sia pure con intenti diversi, denominava un suo prodotto di punta “Dictator”, dittatore. L’ascesa di Hitler in Germania avrebbe dato poi un colpo decisivo alla produzione di quel modello. In alcune situazioni europee, com’è noto, la crisi dell’economia concorse alla crisi della democrazia ed ecco perché, al contrario, una economia in salute contribuisce al bene del sistema democratico e della libertà, alla coesione della nostra comunità.
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Nel dibattito pubblico del dopoguerra italiano si è, spesso, lamentato che la Costituzione non poteva fermarsi ai cancelli delle fabbriche, segnalando, con questo, una sofferenza del sindacato dei lavoratori per molti temi che hanno trovato poi riscontro nella contrattazione tra le parti sociali […] Le imprese sono veicoli di crescita, di innovazione, di formazione, di cultura, di integrazione, di moltiplicazione di influenza, fattore di soft-power. E sono, anche, agenti di libertà. Generare ricchezza è una rilevante funzione sociale. È una delle prime responsabilità sociali dell’impresa. Naturalmente, non a detrimento di altre ricchezze, individuali o collettive. Non è il capitalismo di rapina quello a cui guarda la Costituzione nel momento in cui definisce le regole del gioco. Il principio non è quello della concentrazione delle ricchezze ma della loro diffusione.
Il modello lo conosciamo: è quello che ha fatto crescere l’Italia e l’Europa Il bilancio che ne va tratto non interpella i singoli stake-holder aziendali ma si rapporta all’intero sistema economico e sociale. È quel concetto ampio di “economia civile” che trova nella lezione dell’illuminismo settecentesco napoletano e, puntualmente, in Antonio Genovesi, un solido riferimento. Qual è un principio fondamentale della democrazia? Evitare la concentrazione del potere, a garanzia della libertà di tutti. Vale per le istituzioni. Vale per le imprese, a proposito delle quali possiamo parlare di concorrenza all’interno di un mercato libero. E la lotta ai monopoli ne rappresenta capitolo importante. L’impresa è una formazione intermedia nella nostra società, un corpo sociale di quelli richiamati dalla Costituzione che contribuiscono alle finalità da questa definite, concorrendo al soddisfacimento di bisogni.
Lo Stato coordina gli interessi e le necessità di ciascuno degli interlocutori, orientandoli al soddisfacimento delle istanze delle comunità. Poc’anzi ho richiamato il tema sostanziale del rapporto sostanziale tra economia e istituzioni. L’impresa, non a caso – è stato ricordato – è normata nella Parte I della Costituzione: quella sui diritti e i doveri dei cittadini. L’art. 41 scandisce che l’iniziativa economica privata è libera. Che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
Cosa significa libera? Significa che non vi è più bisogno di “regie patenti”, come ai tempi medievali, per esercitare una professione, un’attività, un’impresa. Significa che la Repubblica ha spostato dal Sovrano al cittadino il potere di scegliere, di decidere. Significa evadere dal dirigismo economico e dal protezionismo tipico delle esperienze autoritarie. Significa trasferire sul terreno dell’economia il principio di libertà. La Costituzione opta decisamente per un’economia di mercato in cui la libertà politica è il quadro entro cui si inserisce la libertà economica, le attività con le quali le imprese partecipano, come si è detto, a raggiungere le finalità delineate nella Prima parte della Costituzione.
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Si è discusso a lungo sull’esistenza di una “Costituzione economica” separabile dal resto della Costituzione. Sarebbe davvero singolare immaginare percorsi separati per lo sviluppo dei rapporti economici, quelli politici, quelli sociali. Al centro della Costituzione vi sono, difatti, i diritti della persona umana non quelli del presunto “homo oeconomicus”. Ecco, quindi, il riferimento all’utilità sociale. Era l’Abate Galiani a dirci – anche lui nel ‘700 – che “la tirannide è quel governo in cui pochi diventano felici a spese e col danno di tutto il rimanente, che diventa infelice”. Il crescere delle disuguaglianze rischia di rendere attuale questo scenario.
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È anzitutto il tema della sicurezza sul lavoro che interpella, prima di ogni altra cosa, la coscienza di ciascuno. Democrazia è rispetto delle regole, a partire da quelle sul lavoro. Indipendentemente dall’ovvio rispetto delle norme, sarebbero incomprensibili imprese che – contro il loro interesse – non si curassero, nel processo produttivo, della salute dei propri dipendenti. Incomprensibili se non si curassero di eventuali danni provocati all’ambiente, in cui vivono e vivranno. Incomprensibili – e di breve durata – se non sapessero guardare al futuro. Fuor di logica se pensassero di non dover rispondere ad alcuna autorità o alla pubblica opinione, in merito a eventuali conseguenze di proprie azioni.
Con eguale determinazione vanno rifiutate spinte di ingiustificate egemonie delle istituzioni nella gestione delle regole o, all’opposto, di pseudo-assolutismo imprenditoriale, magari veicolato dai nuovi giganti degli “Over the top” che si pretendono, spesso, “legibus soluti”. Democrazia e mercato – scrive, nel suo ultimo libro, Martin Wolf – hanno in comune l’idea di uguaglianza e concorrono entrambi alla sua attuazione. Non c’è bisogno di particolare acume per osservare che gli imprenditori sono attori sociali essenziali nella nostra società.
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Abbiamo fiducia nel nostro Paese e nel suo futuro; e sapere di avere il mondo dell’impresa impegnato, con convinzione e con capacità, per il progresso dell’Italia, è motivo di conforto e di grande apprezzamento.