Dopo gli avvenimenti del 2024, conclusisi con la rapida caduta del cinquantennale sanguinario regime degli Assad in Siria, il puzzle mediorientale vede Israele in una condizione di maggior forza territoriale e minor prestigio morale. Quest’ultimo viene oggi sottovalutato dagli israeliani, per non dire del loro governo, inevitabilmente ancora sotto shock dopo il pogrom subìto il 7 ottobre 2023. Ma l’isolamento accresciuto in questi mesi durante i quali l’IDF ha “spianato” Gaza rischia di produrre frutti amari nel futuro, anche dal punto di vista economico, ambito del quale ora non si parla in quanto sono altri i temi principali, ma che sta patendo una qual certa crisi (si pensi, ad esempio, al settore turistico, azzerato).
Rimanendo però al campo territoriale il punto focale è ora esattamente nel mirino di Tel Aviv: l’Iran degli ayatollah, che nei mesi passati ha subìto una serie di rovesci tali non solo da decapitarne la strategia sin lì utilizzata, ma anche di farne rischiare la propria sopravvivenza.
La rete ideata da Qassan Soleimani (il capo della Forza al-Quds delle Guardie della Rivoluzione, ucciso dagli americani a inizio 2020) si proponeva un duplice scopo: creare la famosa “Mezzaluna sciita”, fondata sull’ideologia della Resistenza alternativa al superato – e, soprattutto, sconfitto – nazionalismo pan-arabo di matrice sunnita; ovvero, realizzare un collegamento senza soluzione di continuità fra lo Stretto di Hormuz nel Golfo Persico e il Mar Mediterraneo. Ecco che allora, attraversando Iran Iraq Siria e Libano, questo percorso s’incunea nel mondo arabo sunnita, rendendo così l’Iran la potenza regionale di riferimento, essendo in condizione di poter aggredire Israele da più lati e arrivare alla distruzione dello stato ebraico, vero obiettivo finale da ottenere. Con ciò si sopravvalutano però i segnali di disimpegno USA nell’area, individuabili dapprima nell’ecumenismo obamiano (e dalla sua rinuncia ad attaccare Assad dopo averlo minacciato) e successivamente dal ripiegamento interno trumpiano.
Per attuare il piano, in questi anni Teheran si è avvalsa di attori locali da essa finanziati, addestrati, armati dislocati ovunque e non necessariamente sciiti come Hezbollah in Libano, gli Houthy nello Yemen, Kata’ib Hezbollah in Iraq bensì pure sunniti legati alla Fratellanza Musulmana come Hamas e la Jihad islamica a Gaza e in Cisgiordania. È il cosiddetto “Asse della Resistenza”.
Ora questo schema, portato avanti dal successore di Soleimani, Esmail Qaani, è saltato o quanto meno è stato fortemente indebolito dalle azioni d’attacco condotte da Israele contro i proxy iraniani. Fra i quali solo gli Houthy – che però sono quelli geograficamente più lontani dal centro delle operazioni – hanno mantenuto, o quasi, la stessa potenza di fuoco detenuta prima del 2024. Negli ultimi tempi hanno rallentato il ritmo delle loro azioni sul Mar Rosso, anche per via dell’opposizione militare attivata da Stati Uniti e Gran Bretagna con il sostegno della missione europea ASPIDE, ma restano pronti a riprendere l’iniziativa. Hezbollah, invece, ha patito una serie di sconfitte assai serie: dall’uccisione dei suoi capi e di molti suoi veterani, alla distruzione di santabarbare ubicate nel sud Libano, ma anche nella stessa Beirut, alla perdita – dovuta al crollo del regime siriano – del corridoio logistico utilizzato dall’Iran per rifornire l’alleato libanese di ogni necessità. Un indebolimento che potrebbe riverberarsi anche nell’esercizio del potere sulla società e sul governo libanesi, ora più determinati, forse, a ridurlo significativamente dopo aver patito, una volta di più, i danni arrecati al paese degli israeliani a causa proprio di quel potere.
L’Iran oggi è palesemente incerto sul da farsi. Il nuovo presidente Masoud Pezeshkian rappresenta l’ala diplomatica e tendenzialmente dialogante del regime, anche con una società che cova un sordo risentimento verso l’assolutismo religioso degli ayatollah; i pasdaran al contrario, e come sempre, minacciano vendette implacabili contro i miscredenti e naturalmente contro l’odiato nemico ebreo. Il quale ultimo è tentato dall’idea di un colpo di mano estremo: azzerare il potenziale nucleare di Teheran, il vero incubo di Tel Aviv. Ma, anche su questo punto come sugli altri, come scritto qui in un precedente articolo, Netanyahu non sa se l’alleato americano, per quanto oggi molto più vicino politicamente di ieri (ma ciò non significa, automaticamente, “più amico”) sarebbe disposto ad aiutarlo nell’impresa. Una collaborazione che nel caso specifico, è indispensabile per conseguire il risultato. La polveriera mediorientale rimane così sempre innescata.