Una migrazione di cui si parla poco
C’è una migrazione di cui si parla molto meno rispetto a quella delle popolazioni provenienti dai Paesi extracomunitari. Quest’ultima, ormai considerata da tutti gli studiosi un fenomeno strutturale e non più emergenziale, dovrà essere gestita, volenti o nolenti, da tutti i Paesi europei. Ma la migrazione a cui ci riferiamo oggi è un’altra: un fenomeno che rischia di avere un impatto profondo sulla capacità di innovazione e sviluppo del Paese, trascinandolo verso una crescente marginalità non solo a livello europeo.
Negli ultimi dieci anni (2014–2023) oltre un milione di giovani italiani tra i 18 e i 34 anni ha lasciato il Paese per trasferirsi all’estero. Il saldo netto, al netto dei rientri, è stato di circa 377.000 giovani. Tra questi si distinguono i profili più qualificati e i laureati (circa il 40% degli emigranti), diretti prevalentemente verso altri Paesi europei — Germania, Francia, Regno Unito e Spagna — con una quota significativa verso gli Stati Uniti.
Il mismatch crescente e l’erosione del sistema produttivo
Ma la carenza non riguarda solo i ruoli altamente qualificati: manager, professionisti e tecnici vedranno una scopertura di circa il 40% dei ruoli entro il 2027. Il mismatch di competenze coinvolge circa 2,5 milioni di lavoratori: circa 685.000 posizioni restano scoperte perché le aziende non riescono a trovare candidati idonei. Tra le figure più richieste ci sono operai specializzati, tecnici e professionisti sanitari.
Le prospettive per i prossimi anni, fino al 2029–2030, tenderanno a peggiorare a causa del calo demografico e dell’invecchiamento della popolazione. Si stima che nei prossimi cinque anni l’Italia avrà bisogno di circa 3,6 milioni di lavoratori. Non è semplice porre rimedio a una situazione che questa sì rischia di diventare emergenziale. Tuttavia, è necessario che la politica elabori un piano che includa, per i ruoli più apicali, incentivi economici e misure di defiscalizzazione per favorire il “rientro dei cervelli”, un adeguamento del sistema formativo attraverso un più forte allineamento scuola-lavoro e la promozione di una cultura della meritocrazia. Dal canto loro, le aziende dovrebbero rafforzare gli strumenti di welfare aziendale e favorire il cosiddetto work-life balance, così da motivare maggiormente i lavoratori.
Il nodo previdenziale e la rivoluzione dell’automazione
Questa tematica è strettamente legata anche alla questione previdenziale: con la diminuzione dei lavoratori, chi finanzierà le future pensioni? Il tema è complesso e sarebbe riduttivo affrontarlo in poche righe. Possiamo però offrire alcuni spunti, tra cui quelli proposti dal sociologo Domenico De Masi. Con il progredire dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, le aziende ridurranno in alcuni settori il numero dei lavoratori, riuscendo comunque a produrre la stessa quantità con meno capitale umano.
A questo punto si pone il quesito se non sia equo introdurre una tassa diretta sull’uso dei robot (robot tax), stabilire contributi sul valore aggiunto prodotto dai sistemi automatizzati e/o aumentare l’IRES per le imprese con un grado di automazione particolarmente elevato. Tali interventi andrebbero studiati con attenzione per evitare di disincentivare gli investimenti in innovazione, ma potrebbero generare le risorse necessarie allo Stato per mantenere i sistemi di welfare.
Il grande assente: il dibattito politico
La criticità più evidente è che, da cittadini, oggi non percepiamo alcun dibattito politico su questi temi — né da parte del governo né dell’opposizione. Il mondo sta cambiando rapidamente e rischiamo di restare ancorati al passato.

