L’incontro dei cosiddetti riformisti del Pd a Milano indubbiamente è stato un momento importante nel campo della sinistra italiana. Non foss’altro per un motivo, fra i tanti che si potrebbero citare: ha visto la partecipazione di alcuni — peraltro pochi — esponenti politici che non si sono mai nascosti dietro a un dito, come si suol dire. E questo perché hanno sempre avuto il coraggio politico, la coerenza culturale e la chiarezza programmatica nel dire ciò che pensano.
Uno su tutti: Pina Picierno. Pochi lo dicono, ma credo che dobbiamo avere il coraggio di ribadirlo una volta per tutte. E cioè: Pina Picierno si sta confermando un leader politico. Nel suo partito e nel suo schieramento, perché semplicemente viaggia sempre a testa alta. Soprattutto all’interno di un Pd che, con la gestione Schlein, ha assunto un profilo politico e culturale chiaro: di marca radicale, estremista, massimalista e libertaria.
Una minoranza ornamentale
Detto questo, per onestà intellettuale e per motivazioni del tutto oggettive, non possiamo nascondere al contempo che la cosiddetta “minoranza della minoranza” all’interno del Pd svolge un ruolo prevalentemente ornamentale, se non addirittura pleonastico.
È stato sufficiente ascoltare gli interventi di Delrio o di Guerini, tanto per citarne due, per arrivare a una conclusione banale: l’unico elemento concreto emerso è stato quello di non mettere in discussione la leadership di Schlein, che — come tutti sanno — è radicalmente distinta e distante da ogni richiamo centrista, moderato o anche solo vagamente riformista.
Perché il suo progetto politico, frutto della sua appartenenza culturale, non ha nulla a che vedere con le ragioni originarie del Partito democratico. Ovvero il partito a cui diedero vita Veltroni, Marini, Rutelli, D’Alema, Parisi e molti altri leader riformisti del tempo: un partito autenticamente di centrosinistra, chiaramente riformista e con vocazione maggioritaria.
E, di conseguenza, non si può accusare Schlein di aver cambiato rotta: ha vinto le ultime primarie con un progetto chiaro e trasparente, quello di trasformare il Pd da partito di centrosinistra a partito della sinistra italiana, con un forte accento radicale e massimalista.
Nessuno sfida la leadership
Su questo terreno la “minoranza della minoranza” non ha avuto il coraggio di sfidare l’attuale leader, perché — almeno così pare — l’unico elemento che conta davvero è non disturbare troppo il manovratore, in cambio di quei pochissimi seggi che saranno probabilmente elargiti dall’attuale gruppo dirigente del Pd.
Certo, non si tratta di recuperare stile e metodi delle correnti di minoranza della Dc: i tempi sono cambiati e i confronti sarebbero impropri. Ma la conclusione sul convegno milanese è semplice: la cultura e il progetto riformisti non stanno facendo breccia nel maggiore partito della sinistra italiana.
Perché per competere realmente in un partito — e per sfidare sul serio una leadership di cui non si condivide il progetto politico — non bastano le parole d’ordine del convegno di Milano. E, almeno così pare, invertire la rotta non era e non è l’obiettivo reale della “minoranza della minoranza” del Pd.

