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La ricerca della giustizia non può essere rinviata, nota Milani in questa corrispondenza, l’interclassismo è una «pia illusione», la scuola somiglia a un «tribunale», in cui gli studenti sono mossi soltanto dal desiderio di essere promossi alla classe successiva e non di imparare e in cui i professori giudicano e bocciano, ma non istruiscono. Questo non significa che la carriera scolastica non debba essere faticosa, al contrario. In una lettera del 14 luglio 1958 a don Raffaele Bensi — figura decisiva per il suo percorso esistenziale e religioso — Milani ribadisce che la scuola deve richiedere lo stesso impegno a cui sono costretti coloro che sono impiegati nelle campagne: «Il poter studiare non è un sacrificio, è una grazia e va pagata cara, più cara del costo del lavoro nei campi. Se no la scuola è corruttrice e sforna bellimbusti pretenziosi e viziati». Se i ricchi vengono severamente rimbrottati e censurati per i loro comportamenti, se il progresso e i suoi miti sono rifiutati senza appello, non vi è però neppure alcuna indulgenza verso i poveri né alcuna aspirazione al ritorno a una immaginaria età dell’oro: «Quasi a ogni colpa degli oppressori corrisponde una colpa degli oppressi», si legge in una lettera scritta nel marzo 1964 al maestro Mario Lodi della scuola di Vho di Piadena. Un testo composto insieme ai ragazzi della scuola di Barbiana, un esempio di quella scrittura collettiva che troverà compiuta espressione nella Lettera a una professoressa (1967).
Durissimi sono poi gli attacchi contro giornali e riviste, che o sono considerati una nociva distrazione (è il caso, ad esempio, della «Gazzetta dello sport») o si rivolgono soltanto a una fascia della popolazione, compiacendosi del loro essere elitari. Nel dicembre 1957 Milani scrive a Giorgio Chiaffarino, redattore della rivista «Il Gallo» di Genova: «Io ho simpatia per voi e per Politica e per ogni giornale del genere ma se penso che tutti quelli che vi scrivono sopra di pensiero, se penso che quelli che li leggono sono eguali a loro e che perciò i poveri sono gli eterni rammentati e gli eterni assenti, allora i vostri giornali mi paiono masturbazioni. Cosa serve un giornale amico dei poveri inintelligibile ai poveri?». Ma già nel marzo 1955 Milani rimproverava a un suo caro amico, il magistrato Gian Paolo Meucci, l’uso di uno stile troppo ricercato: «Quando scrivi te invece ci vuole il vocabolario e un’ora di tempo. Quello che te dici in una pagina in quattro colonne io se mi dai un mese di tempo te lo ridico in quattro righe e non lascio una sola parola necessaria».
Non ha perso niente della sua vena polemica anche la lettera del 28 maggio 1962 a Loris Capovilla, segretario particolare di Giovanni XXXIII, in cui Milani denuncia il pessimo trattamento riservato dal personale vaticano a lui e ai suoi studenti tra gli undici e i quindici anni. Dal viaggio, l’unica impressione positiva Milani la ricava dal Papa. Per il resto, la lettera è un lungo e ruvido elenco di lamentele: il costo dei biglietti per l’ingresso ai Musei Vaticani è troppo alto e non sono previste riduzioni per le scolaresche, gli impiegati si mostrano «irriverenti» e «insensibili», attenti soltanto alle richieste delle «contesse tinte e ingioiellate», le guardie svizzere gli si rivolgono «brutalmente».
Uno dei passi più belli della corrispondenza presentata nella selezione curata da Corradi, Corzo e Ruozzi è contenuto tuttavia in una lettera del 28 dicembre 1955 a Sergio Bicchi, uno degli studenti della scuola popolare che Milani aveva gestito a Calenzano: «Voi mi siete tutti grati della scuola che v’ho fatto e avete ragione. Ma io ho avuto da voi esattamente tanta scuola quanta ve ne ho fatta. Né un minuto di più né un minuto di meno. E se ne so più di voi, è solo perché io c’ero tutte le sere e voi invece qualche volta non c’eravate. E se molti altri preti son più bischeri e impreparati di me è solo perché non han saputo mettersi alla scuola dei loro operai e tendere l’orecchio al loro insegnamento». La riconoscenza di un educatore verso i suoi allievi, verso quei montanari, quei contadini e quegli operai a cui ha dedicato la sua intera esistenza.
È da qui che bisognerebbe ripartire per rileggere il pensiero e l’opera di Milani non come propugnatore di un rinnovamento dei metodi pedagogici (cosa che non fu, a dispetto di numerose e influenti letture ancora circolanti), ma come fautore dell’elevazione civile e culturale degli «infelici».
[Tratto da “L’Osservatore Romano” – 5 luglio 2023]