Dopo l’uccisione del capo di Hamas, l’ideatore della mattanza del 7 ottobre, l’auspicio diffuso è che con questo evento si sia aperta una fase nuova del conflitto, verso una auspicabile tregua. Possibile, ma difficile sia così, almeno per le prossime due settimane. Quando si saprà il nome del nuovo Presidente degli Stati Uniti.
È ormai infatti chiaro che Netanyahu abbia inteso utilizzare sino in fondo l’evidente debolezza di Biden a fine mandato, una debolezza resa ancor più evidente dalla sera nella quale il Presidente fallì disastrosamente il confronto televisivo con Trump. Il premier israeliano sa perfettamente che il sostegno americano è indispensabile, sul piano politico e su quello militare. Sa pertanto che col nuovo inquilino della Casa Bianca dovrà assumere un atteggiamento ben diverso, naturalmente consapevole che un conto sarà discutere con Harris e un altro con Trump. Quindi ha cinicamente “sfruttato” tutto il tempo garantitogli dalla forse imprevista debolezza di Biden nell’ultimo anno di mandato. Con l’obiettivo dichiarato di distruggere la catena di comando e l’insediamento territoriale di Hamas a Gaza, prima, e di Hezbollah in Libano, dopo. Impegnando tutta la forza e la violenza a suo avviso (e dei suoi sostenitori e alleati, alcuni dei quali estremisti assoluti) necessarie per ottenere il risultato voluto. Incurante del progressivo discredito e isolamento nel quale Israele è sprofondato agli occhi della comunità internazionale.
Ora Netanyahu può dichiarare che il “lavoro non è finito” e proseguire con gli attacchi, a Gaza e nel Libano. Rinviando ancora l’apertura alla inderogabile necessità di un intervento umanitario internazionale senza del quale il rischio è la morte per fame di altre decine di migliaia di civili palestinesi imprigionati nella Striscia.
Il Segretario di Stato USA, Anthony Blinken, effettuerà ora l’ennesima missione recando con sé il piano americano per una tregua: consapevole, questa volta, di poter convincere il governo israeliano della opportunità di un cessate-il-fuoco ora che le strutture di vertice, e non solo, dei due gruppi terroristici finanziati dall’Iran sono state annichilite o quasi.
Occorre cominciare a costruire il futuro, sosterrà l’inviato di Biden, posto che ormai tutti, nella regione e nel mondo, devono aver compreso (questo era l’intendimento dall’inizio della guerra, oltre al desiderio di vendetta) che Israele non tollererà più, mai più, la presenza di organizzazioni terroristiche ai suoi confini. Via dunque Hamas da Gaza, via Hezbollah dal Libano meridionale (e comunque da ogni posto di governo, formale o di fatto, a Beirut). Un messaggio chiaro rivolto innanzitutto, come ovvio, all’Iran, nei confronti del quale è tuttora in sospeso la reazione all’attacco missilistico subìto nelle scorse settimane. Una ritorsione che Blinken raccomanderà essere contenuta, efficace nella sua simbolicità più che nella sua distruttività.
Ora che è più forte sul piano interno Bibi, come è chiamato il Primo Ministro più longevo di Israele, dovrà decidere se seguire il proprio personale istinto vendicativo e le pressioni dell’ala fondamentalista e radicale del suo governo o il respiro della politica, teso a superare una fase e aprirne una nuova proiettata sul domani. È probabile che si prenderà questi giorni che ci separano dal 5 novembre per decidere in quale direzione procedere e, naturalmente, per vedere chi sarà il suo nuovo interlocutore a Washington. Nel frattempo continuerà con i bombardamenti e i rastrellamenti, per continuare e perfezionare il “lavoro”.