Un giorno solo di tutto un anno si invitano particolarmente gli uomini a ringraziare un Dio che non si attende forse nulla di speciale, convinto com’è che ogni giorno sarebbe quello buono per scambiarsi un po’ di sorrisi e qualche pensiero appena oltre i soliti convenevoli delle buone maniere.
In genere si aspetta l’ultimo dell’anno per mettere a posto le cose, riordinare le carte dentro casa, armarsi di qualche buon proposito per andare oltre. Anche a Dio alcuni tra gli uomini concedono un’oretta di tempo facendo finta di dimenticare i risentimenti per le fatiche dell’anno appena trascorso e per le prove superate e quelle ancora in sospeso, convinti che sia tutta farina del suo sacco.
Si dice grazie così come si fanno gli auguri. Qualcosa ancor meno di un rito, un suono di parole che invece di sollevarti da terra ti inchiodano ad essa, perché un “tanto per dire” è quello che uccide la tua lingua che schiocca la morte ad ogni sillaba.
Si entra in Chiesa, ci si raccomanda più al destino che a lui aggiungendo altre richieste oltre quelle ancora insoddisfatte e si va avanti così per chiudere in bellezza gli adempimenti della tradizione.
Malgrado le dimenticanze, qualcosa di buono questo Dio ha fatto. Basta meno di una mezz’ora per ritirarsi da qualche parte ma non per pregare un Rosario, che perde petali immediatamente secchi ad ogni parola pronunciata con ritmo tutto umano.
Basterebbe un solo dito su di un tablet per dare avvio ad un po’ di musica. Un certo Bach un po’ di tempo fa ha composto la English Suite. Sommo com’era, di musica ne ha tirata fuori tanta, ma quella sua invenzione “inglese” è tra le perle certamente riuscite.
Ora si esegue al pianoforte. Il tema della mano destra e rincorso dalla mano sinistra che replica aggiungendovi qualcosa, rilanciando la sfida di nuovo alla mano destra e così via. Le dita corrono e si rincorrono, sembrano intrecciarsi, non incespicano, per un verso si sfidano, passandosi continuamente il testimone in un discorso che fa spola convulsa tra terra e cielo.
È una preghiera continua di domande a Dio e di sue risposte, di altri umani interrogativi e di continui rilanci divini, di note che scavano verso l’impossibile per arrivare ad una verità che lascia senza respiro chi la intuisce e lasciano esausti, atterriti di gioia quando la si afferra.
Parole in musica scandite con un ordine immisurabile che scavano un pentagramma di alfabeti fino a scomporlo all’esaurimento, riducendo in ridicolo l’immaginazione.
Note che si inerpicano su una scala che sale verso Dio e vanno dentro all’animo suo per tornarci indietro con passaggi che invitano a provare un accosto che sembra non raggiungibile e che comunque ci appartiene.
Dio ci ha dato anche la musica, un modo per sentire come Lui. Dovremmo dirgli grazie. Sono gli uomini a comporla ma è Lui che ce ne ha dato la capacità.
Così mentre Bach ha obbedito alla sua attesa, scendono, inevitabili, lacrime meravigliose a detergere le dita del pianista ristorando il cuore smarrito per il troppo che arriva.
Anche Dio piange compiaciuto per ciò che ascolta questa volta da un altro creatore e si commuove per il modo che l’uomo ha scelto per agguantarlo.
Oggi è il Te Deum anche per questo dovremmo dirgli grazie, per una dote che qualcuno tra noi ha saputo sfruttare e di cui tutti possiamo godere. Una sorpresa anche per Lui quello che gli arriva dal basso e che lo prende in contropiede per l’audacia della intensità, con suoni che non gli danno tregua e lo costringono al colloquio ed a smascherarsi per quanto giusto.
Dio ci ha fatti grandi di miseria e di opportunità, di opportuna miseria e di straordinaria qualità. Oggi è il Te Deum. Non dimentichiamolo.