Non ci sto, il grido riadattato dei fuggiaschi dal campo dell’opposizione. Anche in questo modo si svilisce la politica.

Si sta iaccreditando un’abitudine che lascia sgomenti e che non trova alcuna plausibile giustificazione se non in un triste opportunismo. Chi perde, invece di continuare dall’opposizione la battaglia, preferisce dimettersi senza nessuno scrupolo verso i suoi stessi elettori. 

Giovanni Federico​

Che la politica non goda di buona salute è fatto che non suscita alcuna sorpresa. Ci si affanna su formule nuove e nuovi simboli, su ricerca di identità smarrite o di definizione di un biglietto da visita che finalmente dica una volta e per tutte all’altro chi sei realmente. Nascono e muoiono partiti senza alcun spartito se non quello di arrabattarsi per tentare di stare sul mercato. A tutte le forze politiche, impegnate convulsamente a ricalibrarsi in continuazione per essere in linea con i sondaggi del momento, sfugge ciò che sarebbe intanto più semplice per riattrarre la enorme quota di elettorato che ha smesso di frequentare le urne i giorni del voto.

Se si portassero ragionamenti piuttosto che urla non sarebbe disdicevole; sarebbe apprezzabile se non si cambiasse bandiera con la frequenza del vento che gira. Se si provasse, insomma, a cimentarsi con un po’ di serietà, sarebbe ancora possibile un recupero del paese reale che diffida del palazzo. Occorrerebbe un dolce stil novo ma non se ne intravedono le buone intenzioni. Si sta infatti accreditando un’abitudine che lascia sgomenti e che non trova alcuna plausibile giustificazione se non in un triste opportunismo. Quasi uno sport nazionale che corre il rischio di affermarsi come dato ineluttabile e regola ormai da accettarsi. 

Giocando a parafrasare, riecheggia nella memoria collettiva l’imprecazione de Presidente Scalfaro quando nel 1993, coinvolto dalla dichiarazione ex direttore del Sisde circa l’esistenza di fondi a disposizione dei Ministri dell’Interno, per difendersi ebbe a dire a gran voce: “A questo gioco al massacro io non ci sto. Io sento il dovere di non starci, e di dare l’allarme. Non ci sto, non per difendere la mia persona, che può uscire di scena in ogni momento, ma per tutelare con tutti gli organi dello Stato l’istituto costituzionale della presidenza della Repubblica”.

“Non ci sto” è l’urlo ossessivo dei candidati a poltrone di vertice, che abbandonano il campo non appena mancato il bersaglio. È relativamente fresca la candidatura di EnricoMichetti alla poltrona di Sindaco di Roma. Non c’è l’ha fatta, Gualtieri l’ha superato di diverse lunghezze. Talvolta ci si dimentica che in politica quando si perde c’è sempre l’opportunità, che dovrebbe suonare come un dovere, per spendersi in un po’ di sana opposizione. 

Dopo appena quattro mesi di cimenti nell’Aula Giulio Cesare del Campidoglio, Michetti ha fatto armi e bagagli dando a tutti il benservito. Non si è sentito un solo commento che stigmatizzasse una scelta che ha il sapore di uno schiaffo in faccia a quanti lo hanno votato. Anche Carlo Calenda ha seguito i passi di Michetti. Sembrava esserci stato un ripensamento all’idea di dimettersi da consigliere comunale. Poi, dopo nuova intensa ponderazione, ha dichiarato incompatibile il suo ruolo di europarlamentare con quello di consigliere comunale. Nessuno che gli abbia contestato perché allora abbia deciso di candidarsi al Comune, sempre ferma l’ipotesi che avrebbe potuto anche fallire di diventare Sindaco della Capitale. Ultima brillante testimonianza è quella di Donatella Bianchi dei 5 Stelle. Candidata alla Presidenza della Regione Lazio è andata in bianco, non raggiungendo l’ambizioso obiettivo ed ha deciso di tornare a fare la giornalista in Rai a Linea Blu.

Sarebbe troppo azzardato sperare in una pubblica censura dei partiti, soprattutto di quelli di provenienza, verso questi concorrenti in fuga dalla opposizione? A Michetti, Calenda e la Bianchi sarebbe bastata l’essenziale onestà di dichiarare con chiarezza ed in anticipo che, se avessero fallito il colpo, sarebbero rimasti sulle antiche poltrone di origine, tornando ad un punto di partenza che ha sempre un richiamo di invincibile nostalgia. Tutto qua. “Se non ho le leve di comando in mano che ci sto a fare?” potrebbe essere la replica di Michetti, Calenda e Bianchi, ma ce ne sono anche altri, che andrebbero però apprezzati per il coraggio di una verità. Come dicessero ai loro colleghi, che restano ingenuamente sulle barricate, che possono pure farsi ammazzare, la questione non li riguarda. Di questi tempi, l’opposizione è esercizio inutile e defatigante.

Ci permettiamo di dire anche noi “Non ci sto”, di opporci a questi mancati oppositori. Ne guadagna la società a non averli come rappresentanti nei ruoli mancati, ne rimette la politica che ne ha consentito l’azione.