“… Era rapito in un sogno di gloria. Il futuro gli stava davanti pieno di promesse, avrebbe fatto opere grandiose, avrebbe celebrato la bellezza pura, la bellezza che attesta l’esistenza di Dio, l’amore di Dio per l’uomo, la mano invisibile del Creatore nel mondo visibile. Avrebbe aggiunto ai sei trionfi del Petrarca, il settimo Trionfo, il più alto, il più divino, il Trionfo della Bellezza. …”
Così Paola Brianti nel suo libro Parmigianino (sottotitolo “Il mistero di un genio”), edito di recente da Albatros, ci descrive lo stato d’animo di un giovane artista che, senza neppur salutare la sua Laura, parte per Fontanellato.
È la stessa cittadina da cui l’autrice si è allontanata da giovane per intraprendere con passione la sua carriera di giornalista e scrittrice alla ricerca, nelle strade del mondo, anche di una Bellezza che va oltre l’estetica visiva e s’inserisce tra le pieghe dell’anima, nei binari del treno della vita. Una vita che per il Parmigianino si è rivelata troppo breve per consentire alle sue ispirazioni artistiche geniali di evolversi appieno (Geronimo Francesco Maria Mazzola, detto il Parmigianino, nasce il 1503 e muore nel 1540).
Il libro racconta la vita dell’eccentrico pittore del Cinquecento italiano, secolo turbolento e gravido di trasformazioni. Momenti salienti e personaggi fondamentali dell’epoca fanno da preziosa cornice al protagonista, che l’autrice fa muovere con garbo ed eleganza, descrivendo minuziosamente fatti dell’epoca nonché aneddoti significativi ed episodi della vita dell’artista. Conseguentemente, il lettore si ritrova a condividere, passo dopo passo, una storia appassionante e, grazie all’atmosfera intensa e colma d’immagini, partecipa a sentimenti ed esperienze. Come, ad esempio, la prima visita alla Rocca di San Vitale quando egli “… affidò al cameriere la borsa di cuoio con gli abiti di ricambio, ma rifiutò di consegnargli la cartella. …”. Sembra di vedere il pittore che strappa con forza il materiale indispensabile per la sua arte, da cui non si vuole mai staccare, neppure quando va a caccia.
Nella trama, scorci di esistenza e peculiarità quotidiane si mescolano, facendo capire al lettore come quel giovane “… era bello e ne era consapevole, amava l’eleganza…” essendo anche consapevole di essere “… giovane d’anni e vecchio di mestiere…”.
Con questa alternanza di fatti privati e pubblici, in virtù di una scrittura agile ed erudita e di una narrazione coinvolgente, le pagine scorrono con piacevolezza, seguendo l’artista nelle sue vicende e descrivendo le sue mirabili opere.
Riferimenti dotti, frutto di studio ed approfondita ricerca, sono intercalati con dialoghi mai banali. Tra uno sguardo ed una battuta il lettore apprende, ad esempio, che a quell’epoca era stato pubblicato a Venezia “L’Asino d’oro” di Apuleio ed arriva ad avere addirittura visione del tomo. Visioni come questa, del resto, sono il frutto di una particolare scrittura a tratti cinematografica, da cui si deduce la passione dell’autrice per il linguaggio delle immagini. Ella descrive, infatti, in maniera tanto reale i costumi e la società dell’epoca al punto che spesso sembra di presenziare ad una cena, sostare di fronte ad un affresco oppure essere accanto ai numerosi personaggi che popolano la narrazione, siano essi nobili, papi, o semplici garzoni.
Non mancano storie d’amore e magiche atmosfere (tra volti di languide donne e rime poetiche), che riportano alla mente l’emozione che suscitano le opere del Parmigianino, il quale non ha alcuna ambizione di essere filosofo, medico o scienziato ed afferma “… Io sono soltanto un artista…”. Un artista che per tutta la vita cercò nell’arte la verità, un pittore per il quale la sfera alchemica non fu pura magia, ma l’essenza stessa della vita. Egli, infatti, dipinge in modo magistrale, ma sempre con la consapevolezza dei propri limiti (“… Io non dipingo mai quello che non capisco…”), riproducendo la realtà come la vede.
Le sue opere sono descritte con acuta capacità critica e manifesta passione. L’intero testo, del resto, è una fonte imperdibile storica e bibliografica, grazie agli studi d’archivio ed alle ricerche che l’autrice ha protratto per anni.
Nel libro, tra velati amori dai toni carnali, ragionamenti sulle cose da fare ed istinti creativi, il mistero della vita e dell’arte anelano al fascino impalpabile della Bellezza. A volte, si affrontano temi filosofici, come quando Sanvitale, Delfini, Russiliano e l’artista emiliano discettano sulla trasformazione della materia (“…Francesco entrò nel salone con i suoi abiti ancora macchiati e le mani imbrattate di calce e di tempera…”), e sul rapporto Dio-perfezione.
Il Parmigianino raccontato dall’autrice è un giovane uomo che ascolta, ipotizza e sperimenta, un artista che mette in discussione non la validità della scuola Rinascimentale, ma i suoi limiti.
Società, cultura ed arte s’intrecciano quasi creando una atmosfera di suspense come quando Francesco Mazzola, cercando una risposta plausibile ai suoi quesiti ed alle sue aspirazioni, mormora… “Mi hanno avvelenato” ed alla richiesta di chi sia il colpevole l’amico architetto Damiano De Pleta risponde semplicemente: “Parma”.
Alla fine del romanzo, non può non venire alla mente l’Autoritratto entro uno specchio convesso, realizzato intorno al 1524, in cui l’espressione del volto vaticinante del giovane artista sembra voler sintetizzare il suo breve futuro caratterizzato da intensa ricerca, forte vitalità, acuto dolore e gioia creativa.