Partiti in mano al capo? Meglio comunque il pluralismo delle correnti.

Viviamo in un contesto dove i partiti, nel migliore dei casi, si sono ridotti a cartelli elettorali o a prolungamenti dei desideri, dei voleri e delle vendette di chi li dirige

I partiti, come ben sappiamo, continuano ad essere gli strumenti essenziali e decisivi di un sistema democratico. E costituzionale. Quando i partiti entrano in crisi inesorabilmente entra in crisi la stessa democrazia. Perché l’alternativa ai partiti, come non si stancava di ripetere la miglior cultura cattolico popolare e democratico cristiana, sono soltanto due: o prevale la cosiddetta “democrazia delle persone e non la democrazia dei partiti” per dirla con una felice e precisa definizione di Carlo Donat-Cattin degli anni ‘80 oppure, ed è ancora peggio, si afferma quella che comunemente viene definita come la “democrazia del capo”. 

In entrambi i casi, comunque sia, si tratta di un progressivo e plateale impoverimento della democrazia, dei suoi istituti e del suo impianto. Eppure, è persin inutile negarlo, noi viviamo da anni in un contesto dove i partiti, nel migliore dei casi, si sono ridotti a puri cartelli elettorali o a semplici prolungamenti dei desideri, dei voleri e delle vendette di chi li dirige. Modelli che rinnegano alla radice quel ruolo e, soprattutto, quella autorevolezza che li hanno caratterizzati per molti decenni nella vita pubblica italiana.

Ecco perché, se oggi possiamo parlare, seppur molto timidamente, di “ritorno della politica” e di un “nuovo ruolo per i partiti” democratici e popolari, dobbiamo renderci conto che ci sono solo due modelli che continuano a contraddistinguere i partiti. E cioè, o ci sono i partiti del capo o ci sono i partiti democratici. Tertium non datur, come si suol dire. Per dirla in altri termini, i due modelli che storicamente caratterizzano la vita interna dei partiti – e quindi la qualità della nostra democrazia – sono realmente solo due. Ovvero o si tratta di partiti e di soggetti politici dove la comunità si identifica radicalmente e visibilmente con il proprio “condottiero” e, di conseguenza, si eclissa o scompare quando il capo entra in disgrazia oppure sono partiti disciplinati da una rigorosa e cristallina democrazia interna. Certo, e al riguardo, il modello della Democrazia cristiana, al netto di alcune degenerazioni locali e nazionali, resta un esempio di autentica e trasparente democrazia. E cioè, correnti organizzate che rappresentavano pezzi di società e che contribuivano, con la loro concreta elaborazione, a costruire il progetto politico complessivo del partito. 

Correnti che garantivano anche, e soprattutto, una leadership diffusa che impediva al partito di avere capi indiscussi ed indiscutibili. Insomma, era un modello che aveva sempre pesi e contrappesi all’interno del partito e che, seppur in presenza di grandi leader e di altrettanti statisti, non c’era quasi mai una sovrapposizione che cancellava il pluralismo e la democrazia all’interno del partito. E non c’è alcun confronto, al riguardo, con le molteplici correnti che attualmente caratterizzano alcuni partiti – a cominciare dal Pd – dove, com’è evidente a tutti, si tratta prevalentemente di gruppi di potere privi di rappresentanza sociale e territoriale e, soprattutto, di concreta elaborazione politica e culturale ma solo strumenti utili e funzionali per la distribuzione del potere all’interno del partito e, di conseguenza, nelle istituzioni. A tutti i livelli.

Per questi motivi, quando si parla del ritorno dei partiti democratici non c’è alternativa al pluralismo – vero e non fittizio o virtuale – culturale e politico interno. E, quindi, delle correnti o delle componenti, che dir si voglia. L’unica modalità concreta e alternativa ai partiti personali o del capo o del padrone o del guru.