Ci sono aggettivi che si incollano ai sostantivi alla stregua di matrimoni indissolubili, tanto da indurre a credere che la fine del primo comporterebbe anche quella del secondo e viceversa.
Da ieri ha ripreso fiato il battibecco continuo tra politica e magistratura. Non è un diverbio intermittente, saltuario, di quando proprio non si ha altro da fare. Di nuovo, lo dicono le cronache, si è su fronti contrapposti a causa di emigranti o di clandestini sottratti alle acque e portati direttamente nel centro di permanenza per il rimpatrio in Albania. E’ questo un tema intrinsecamente ricco di contraddizioni, dove sembra si permane e poi invece si rimpatria, è uno stare ed un muoversi all’un tempo.
All’alba di ieri, una sentenza del tribunale di Roma ha detto che quanto fatto non è corretto. Gli ospiti del nostro centro a Shengjin, in terra straniera, devono essere portati in Italia in attesa che vengano rivalutate le loro richieste di asilo. Ciò in quanto i paesi di loro provenienza non sarebbero sicuri per eventuali rimpatri e ritorni a casa.
Da qui la solita ridda di dichiarazioni a favore o contro, di leggi spiattellate dai giudici per dire della fondatezza della loro posizione e di risposte della politica che rivendica la propria autonomia ed indipendenza di scelte. In campo, giuristi di ogni tipo a dar mano agli uni o agli altri.
L’opposizione non si fa sfuggire l’occasione per attaccare con un suono più di disco rotto che di proposte, tutti intenti a non cadere nelle sabbie mobili della spinosa questione e pronti a pungere l’avversario ogni volta sia possibile.
La sola consolazione è che in Europa la situazione non è così dissimile. Non pochi i leaders politici di quel continente, plaudendo alla Meloni, hanno individuato la “mossa albanese”, come quella vincente per mettere sotto al tappeto la polvere migratoria; ciò mentre la Corte di Giustizia stabilisce un criterio diverso di valutazione della sicurezza che cozza intanto contro l’elenco dei 22 paesi stilati dal nostro Ministero degli Esteri e forse quello anche di altri paesi che compongono la grande nazione europea.
In sostanza, chi proviene da un paese sicuro non ha diritto ad una richiesta di asilo e quindi viene provvisoriamente trattenuto in un CPR e poi allontanato, espatriato dall’Italia in 4 settimane.
Sicuro sta per non avere preoccupazioni; ad oggi i nostri migranti stanno per essere sballottati da una parte all’altra con il rischio prossimo di tornare a breve di nuovo in Albania e diventare oggetto e vittime di una contesa di poteri sopra le loro teste. Sono, in anticipo, condannati ad una spola da una sponda all’altra similmente alle fatiche di un certo Sisifo. Secondo il vocabolario fare la spola significa “andare avanti e indietro, muoversi o spostarsi continuamente tra due punti o luoghi, come fa nel telaio la spola, detta anche tecnicamente “navetta”.
Ed è appunto a bordo di una nave che quegli uomini in cerca di approdo sono ora destinati a far tana su una riva per poi tornare probabilmente al punto di partenza fino a che non si farà chiarezza. Occorrerebbe un lavoro di spola per rimettere ordine su certe faccende.
Parlarsi prima, tra i due poteri dell’esecutivo e quello giudiziario, per chiarirsi le idee, confrontarsi preventivamente per decidere una linea accettabile ad entrambi su come procedere potrebbe essere utile, evitando di scoprire all’ultimo istante una posizione in grado di far cadere il fragile castello di carte, proprio di materia così spinosa.
Manca evidentemente un pontiere che lavori in tal senso ed a monte la stessa volontà di legittimarne uno.
In una recentissima intervista l’ex parlamentare Marcello Dell’Utri ha ricordato il ruolo diplomatico svolto, vicino a Berlusconi, con impareggiabile abilità da Gianni Letta, chiamato “Smorzaitalia”, capace di tutto comporre e tutto stemperare.
In mancanza oggi di un Letta, ne deriva, stando ai fatti, soltanto una ingrata spola a cui verranno sottoposti gli uomini saliti a bordo della nave Libra della Marina Militare dopo essere stati soccorsi dalla nostra Guardia di Finanza nel mare di competenza della zona Sar italiana.
C’è poco da librare in volo le speranze di una facile soluzione della faccenda e non ci sarebbe da scommetterci né una libbra né una sola oncia, delle sedici che la compongono, che la cosa venga superata agevolmente.
Per adesso la situazione presenta solo una spoletta che è un congegno per far esplodere colpi di artiglieria da una parte contro l’altra e viceversa. Del resto, quando si parla di emigrazione, per orientarsi occorre ragionare sempre al contrario. Su una nave, la parte immersa nell’acqua, priva di respiro è detta stranamente “opera viva”. La parte emergente, quella del ponte di comando, è battezzata “opera morta”. Sarà perché “presagamente” gli uomini a bordo odorano più spesso della morte di una speranza piuttosto che di vita nuova.
Pare che il nostro Governo darà vita ad un nuovo decreto e si attiverà con un ricorso in Cassazione per dare un suo corso deciso alla gestione dei migranti. Ci aspettano giorni in cui ci si avviterà su norme, interpretazioni e codici alla mano.
Per adesso, direbbe Carducci “passa la nave mia con vele nere”, navicella priva di ingegno che non sa se privilegiare la rotta della prua o della poppa. Gli uomini a bordo guarderanno sconsolati un paese che sta sulla collina, disteso come un vecchio addormentato, in attesa che almeno il buon Dio ci mette una mano.