Popolarismo, lo scrigno di una dottrina feconda

L’appello di Sturzo ai “liberi e forti” resta una pietra miliare nella storia del cattolicesimo politico. Anche oggi rappresenta una fonte d’ispirazione ideale. Tanti segnali inducono a pensare che aiuti a rimettere in cammino tutte le potenzialità e la fecondità del popolarismo.

La netta vittoria della coalizione di centrodestra a guida meloniana, la totale débâcle di tutta l’area delle forze di centrosinistra e gli aspetti più eclatanti emersi nella recente competizione elettorale che ha riguardato il rinnovo dei consigli regionali di Lazio e Lombardia e i rispettivi governatori, ossia la totale assenza di progetti credibili, l’incontenibile ostilità tra le forze dell’attuale opposizione e l’abissale disaffezione dell’elettorato, giunto ad una percentuale di astensione di oltre il 60 per cento, rende, quanto mai urgente, l’avvio di un processo di ricomposizione dell’area popolare, cattolico democratica e sociale come risposta credibile al vuoto di idee e progetti e alla ulteriore accentuazione della polarizzazione delle forze politiche in campo.

È oramai diffusa la consapevolezza che questo malessere, ultraventennale, generato da politiche disinvolte, improvvisate, dal respiro corto, talvolta spregiudicate o intrise di populismo e sovranismo, permanendo il vuoto di valori, di metodi e di prospettive, solide, non troverà altra soluzione che riproporre ingannevoli ed effimere rendite elettorali. Anche la stessa Meloni, stretta in un insidioso dualismo bifronte, alterna performance di forte risonanza mediatica e securitaria, nelle questioni interne, incentrati su obiettivi identitari, ma di dubbia rilevanza ed efficacia, anziché affrontare le tante derive socio economiche che da tempo affliggono ampi strati del paese, a piegature sotto tono, fino a tratti di inequivoca irrilevanza nei tavoli decisionali delle nostre istituzioni europee: emblematiche le anticamere che le hanno riservato, Macron e Scholz. Mentre sono rimasti solo ricordi tutte quelle pretese da ultimatum, rivolte alle istituzioni europee, pronunciate nel corso dei tanti comizi identitari nelle piazze, non solo italiane, prima del voto.

Tutto il contrario di ciò che caratterizzò invece il nostro sistema politico per più di cinquant’anni nella cosiddetta prima Repubblica. Ma, ancor più c’è da chiedersi, con due elettori su tre che non votano e una ristretta minoranza a decidere nei territori, se possiamo ritenere legittimamente assicurato il presupposto sostanziale della partecipazione politica, tra i capisaldi del principio di eguaglianza e del principio di rappresentanza politica,almeno nei termini di una soglia minima accettabile: la questione si collega direttamente, nella scelta o meno dell’elettore, alla precipua funzione rappresentativa dei partiti. Il fatto è che paghiamo ancora il prezzo pesante di quella tempesta giudiziaria che nel perseguire le singole violazioni penali, fini per abbattere l’intero sistema dei partiti. Fu il netto annientamento di quasi tutto il sistema di quei partiti a rendere rapida la migrazione, persino delle istanze più identitarie dei ceti sociali, sempre meno aperte ad una visione comune, verso le nuove forze che si affacciarono.

Così capovolgendo quella metodica che aveva visto il sistema dei partiti, fino a quel momento, nella versione tradizionale, artefici di progetti del paese modellati su una visione organica e di lungo periodo – di cui la Dc, primariamente, se ne fece carico – ne scaturì per paradosso, anche sulla spinta di una nuova legge elettorale maggioritaria, un nuovo e singolare modello di partito, costruito sulla persona del leader, volto più ad inseguire le istanze sociali, tanto più istintuali e mutevoli quanto più appetibili nel carpirne immediati consensi, che a costruire progetti politici fortemente radicati dentro una dialettica democratica di valori rappresentativi di autentici pezzi di società. È intanto appariva sempre meno essenziale la formazione e la cura della classe politica, preferendo ad essa l’assoluta fedeltà dei quadri dirigenti e degli iscritti. Non ha allora tutti i torti Pier Ferdinando Casini, il più navigato dei democristiani, finito come un naufrago in un Pd sempre più smarrito, nel disegnarci una realtà rappresentativa delle Istituzioni dove non sembrano trovarsi neanche le vestigia di quelli che furono canoni e metodi di governo con cui si raccordavano sapientemente istanze e aspettative dei ceti sociali nel rispetto dei quali i partiti della prima Repubblica, ed in primis la Democrazia Cristiana, seppero imprimere, con la miracolosa ricostruzione dell’Italia del secondo dopoguerra, un processo di modernizzazione dei territori senza precedenti. In questi anni, parte dell’area cattolica e popolare, privata del partito di riferimento, si è rifugiata nel disimpegno politico o nel volontariato sociale. Tuttavia non sono stai in pochi a perseguire, in una odissea senza fine, velleitarie fusioni a freddo con culture post-comuniste, che purtroppo qualche eminente esponente non smette di vagheggiare, o con culture di stampo liberista, nell’intento, pur lodevole, di non disperdere quel patrimonio di idee, o talvolta, nell’ingenuo obiettivo di controbilanciare un eccessiva polarizzazione delle coalizioni, sia a destra che a sinistra.

In questo quadro non può ignorarsi il nobile tentativo di una nuova edizione della Dc, che ha già trovato, soprattutto in Sicilia, lusinghiera affermazione. Non altrettanto si è verificato nelle altre province del paese dove la vecchia classe dirigente non è riuscita a divincolarsi da una sterile funzione di fedele custode di un passato politico, che purtroppo sembra oramai archiviato. Per contro, non poco rilievo devono invece aver avuto le cocenti delusioni, ed il fallimento di quei progetti ancillari, nell’uno e nell’altro versante e la profonda crisi del paese – che non sembra trovare soluzione nei tanti governi che si sono succeduti in questi anni – nel motivare il sempre più comune proposito di riportare nella pratica politica quei valori identitari e quei metodi che, ancora attualissimi, furono il portato della profonda riflessione di pensiero con cui don Luigi Sturzo disegnò, definendole con il termine popolarismo, le linee di condotta politica, per governare un paese senza mai debordare dalle connotazioni tipiche di un sistema democratico. È appena di qualche settimana la celebrazione degli oltre cento anni dall’appello “A tutti gli uomini liberi e forti”che don Luigi Sturzo lanciò il 18 gennaio del 1919, in concomitanza con la fondazione del partito popolare. Quell’Appello resta una pietra miliare ed è un manifesto di grande spessore morale e politico. Li si incorpora tutto il pregevole lavoro, unanimemente riconosciuto dagli studiosi, con cui Sturzo seppe trasporre in chiave politica i tratti etici e sociali della dottrina sociale della Chiesa.

Nella ricerca di un solido antidoto contro lo statalismo, che comprime le libertà, contro la partitocrazia che deforma i valori dell’uguaglianza, e contro l’abuso del denaro pubblico, che altera la giustizia: “le tre nemiche della Democrazia”, Sturzo antepone una corposa visione interclassista. E non è raro rinvenire in taluni passaggi della sua ricerca, tesa a rielaborare organicamente, alla luce della propria teoria politica, principi e visioni delle più importanti matrici culturali: dal conservatorismo al liberalismo, partendo da A. Smith, al socialismo, assonanze con le categorie del liberalismo schematizzate da Benedetto Croce. Un’analisi pregevole che lo porta ad individuare, per ciascuna di esse, gli effetti perniciosi o le possibili aberrazioni nella loro prassi applicativa: dalle incontrollate forme di accentramento dei poteri, alle profonde disuguaglianze sociali, alle temibili compromissioni dei supremi valori della vita, della famiglia e della cooperazione pacifica tra le comunità e tra i popoli. In questa mirabile sintesi la sua teoria del popolarismo ne risolve le contraddizioni intrinseche in una coerente compatibilità con i principi dello Stato democratico.

Non di poco conto fu, anche, il carattere profetico della sua visione con riferimento al futuro assetto costituzionale, all’importanza della partecipazione di ogni cittadino, alla vita istituzionale e alla costruzione di una comunità europea. Ma quello che ancora più stupisce è l’estrema attualità del suo pensiero nel quale, anticipandone gli scenari si colgono adeguate risposte a tutte quelle carenze e inadeguatezze che oggi siamo chiamati a fronteggiare, mentre ci si avvita verso una crisi dei partiti, quasi irrisolvibile, con grande insidia per la democrazia rappresentativa. Un pensiero pregno, vieppiù, di rigore morale (ne fa conto il suo concetto di spirito di servizio nell’esercizio di una funzione pubblica) e di organica e lungimirante coerenza strutturale e concettuale, che, oltrepassando le anguste espressioni della cultura politica cattolica, soprattutto del suo tempo, sta trovando una riscoperta in vaste aree della società civile ed in una nuova classe dirigente. È noto peraltro quanto ad Egli fosse ostile la commistione tra la sfera religiosa e la sfera politica (molto esplicativo il confronto epistolare con Romolo Murri).

Un focus particolarmente interessante fu il compiuto tentativo di coniugare, dentro la cornice della democrazia e della dottrina sociale della Chiesa,la connessione circolare: Individuo, Società e Stato nel rapporto tra l’esercizio legittimo delle libertà e della sovranità. Nel sottoporre a rigorosa riflessione tutto il pensiero e le teorie politiche del contrattualismo, che da Hobbes, Locke, Montesquieu, Rousseau, fino a Rosmini ed oltre, sviscerò con limpida visione ogni improprio significato del termine popolo – del cui frequente equivoco concettuale si sono alimentate e si continuano ad alimentare tutte quelle interpretazioni che sulla scia di insidiosi fraintendimenti finiscono per portare facilmente verso scenari populisti – disvelandone tutte le false applicazioni, non in linea con i principi basilari di Democrazia. Magistrale, in particolare, la sua analisi politica del contrattualismo liberale di Locke, ove ne risolve il problema della marcata asimmetria nel dualismo: Società-Stato, ricorrendo ad una più ampia ed articolata accezione del concetto di sovranità, che non può identificarsi nel solo esercizio da parte del popolo come corpo indistinto e monolitico; oltre a esso c’è la naturale e necessaria articolazione negli atti degli individui, delle comunità, delle istituzioni in un quadro di compatibilità con tutto quel crogiolo di interessi che ne esprimono il bene comune che deve sempre orientare il cammino di un popolo e dell’umanità.

Lo stesso Sturzo, in occasione della pubblicazione, nel 1923, del libro intitolato “Riforma statale ed indirizzi politici”, avverte che “…il suo popolarismo è divenuto una vera e propria dottrina della quale il partito non è altro che una concretizzazione organizzativa”, precisando vieppiù che esso “è esattamente una teoria dello Stato democratico”, nella cui costruzione hanno preminente rilevanza i principi di libertà e giustizia. Se non bastasse questo a rendere ineludibile l’avvio di un serio processo di ricomposizione culturale e politico, nel nome del popolarismo, per riportare nel solco della più aderente applicazione dei valori di convivenza civile, di sviluppo e di progresso, senza lasciare ai margini nessuna persona, ai principi scolpiti nella Carta costituzionale, germogliata sull’epilogo di una guerra mondiale, foriera delle più abissali e disumane brutalità e di una sanguinosa lotta fratricida, cos’altro potrebbe spingerci a trovare un percorso comune per il bene del paese? Ma non da meno assume valore la preminente necessità di contribuire a comporre, in una visione di pace tra i popoli, e non di blocchi contrapposti, come sembra ci si stia riavviando, un quadro geopolitico inquietante scatenato da una ingiustificata aggressione alla sovranità dell’Ucraina, dagli esiti e dalle evoluzioni, oggi imprevedibili. Al contempo, è deprimente che anche le Istituzioni sovranazionali segnino il passo o non trovano autorevolezza e ascolto, perché troppo appiattite su posizioni di parte.

In questa cornice i tanti segnali che si colgono ci inducono a pensare che il forte fermento che sta animando l’area dei cattolici saprà essere la giusta linfa e la “ ragion pratica” (qui nel senso kantiano di quella parte del pensiero sturziano, indirizzato all’azione ed al comportamento), per rimettere in cammino tutte le potenzialità e la fecondità del popolarismo, dottrina capace, ancora oggi, di dare le giuste risposte alle tante distorsioni dell’attuale sistema politico.