La ricostruzione storica e politica di quel gesto in un libro di Gian Luca Potestà. Il Poeta scrive ai Cardinali per invocare un cambiamento di rotta nella Chiesa dopo l’abbandono di Roma e la conseguente “cattività avignonese”. Il testo qui pubblicato rappresenta un ampio stralcio di quello che trova ospitalità oggi sull’Ossevatore Romano.
A proposito dei fedeli, il canone 212 del Codice di diritto canonico, che è ripreso anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica, recita: «In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l’integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l’utilità comune e la dignità della persona». Oltre sette secoli fa, a esercitare questo diritto-dovere in maniera particolarmente appassionata fu un fedele laico al quale non facevano certo difetto scienza, competenza e prestigio: il suo nome era Dante Alighieri. Ma andiamo con ordine.
Dopo la morte di Clemente V , avvenuta il 20 aprile del 1314, viene convocato il conclave che dovrà eleggere il suo successore. I cardinali, divisi in tre fazioni irriducibili — il gruppo guascone, quello francese e quello italiano, nessuno in grado, da solo, di raggiungere la maggioranza dei due terzi — si riuniscono nella cittadina provenzale di Carpentras. Non va dimenticato che Clemente V — il guascone Bertrand de Got, arcivescovo di Bordeaux — era stato eletto nel 1305 dal conclave di Perugia, protrattosi per undici mesi, e che proprio lui aveva deciso di rimanere in terra francese, dando così inizio a un periodo che agli occhi di Dante si sta rivelando oltremodo nefasto. Infatti, la scelta di restare in Francia aveva determinato una crisi drammatica per la Chiesa tutta e per il Papato, che aveva abbandonato Roma, sua sede naturale.
È questa la situazione che, tra la fine della primavera e l’inizio dell’estate del 1314, spinge Dante a scrivere un’accorata lettera ai cardinali italiani. A tale famoso documento ha di recente dedicato un ottimo libro Gian Luca Potestà, docente di Storia del cristianesimo all’Università Cattolica di Milano (Dante in conclave. La Lettera ai cardinali, Milano, Vita e Pensiero, 2021, pagine 230, euro 23): in esso l’autore ricostruisce con grande precisione il contesto storico in cui si colloca lo scritto dantesco, propone un’attentissima analisi filologica della missiva e ne coglie il significato più autentico, inquadrandola all’interno della straordinaria vicenda religiosa e letteraria dell’Alighieri. Come sottolinea Potestà, «al centro della Lettera sta la Chiesa romana. Abbandonata da Clemente V , rimasta sola quasi fosse una vedova, si lamenta della propria sorte e implora soccorso».
Tutto ciò è veicolato dalla scrittura di Dante, un fedele profondamente preoccupato che la situazione non si evolva in modo positivo e che presagisce e teme che anche il prossimo pontefice non sarà intenzionato a lasciare la Francia per fare finalmente ritorno nella città eterna. Ora Clemente V è morto, ma il rischio che la situazione non migliori rimane altissimo e l’Alighieri non esita a considerare i cardinali riuniti per eleggere il nuovo pontefice i primi responsabili di ciò che accadrà.
Il conclave di Perugia si era concluso con un esito disastroso, quello di Carpentras avrebbe potuto non essere da meno: per questo motivo il sommo poeta avverte la necessità di rivolgersi ai porporati italiani, in particolare a Napoleone Orsini, affinché sia scongiurato il pericolo che la Chiesa debba subire un ulteriore affronto che non farebbe che aggravare la sua già triste condizione. Tuttavia, nonostante l’appassionata perorazione contenuta nella Lettera, il risultato non sarà quello sperato: all’unanimità i cardinali eleggeranno al soglio pontificio Jacques Duèse, che scelse il nome di Giovanni XXII e rese ben presto pubblica la scelta di stabilire la propria residenza ad Avignone e, dunque, di non tornare a Roma.
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