Articolo pubblicato sulle pagine dell’Osservatore Romano a firma di Leonardo Guzzo
L’affaire Moro si apre su un palcoscenico di pura letteratura. Sono tornate le lucciole, esulta l’autore, il dissacratore Leonardo Sciascia, in risposta al celebre monito pronunciato da un altro irregolare, Pier Paolo Pasolini, poco prima della sua tragica scomparsa. Scomparse, secondo Pasolini, erano anche le lucciole: travolte dalla svolta industriale e consumistica dell’Italia, da un cambiamento epocale avvenuto in pochi anni, dimentico della tradizione, assassino di una “purezza” che la politica per prima aveva abbandonato.
Sciascia scrive nell’estate del 1978, appena dopo la morte di Aldo Moro, e in quella morte trova uno spunto per riprendere il filo del passato e immaginare un futuro nuovo. Il caso Moro è un caso “letterario”: questa la tesi fondamentale dello scrittore siciliano.
Letterario a cominciare dalla trama, assolutamente verosimile ma troppo perfetta per essere reale: per non sembrare uscita dall’immaginazione — esercitata a tavolino — di uno o più “autori” che controllano lo svolgimento dei fatti. Gli stessi autori che hanno guidato l’opinione pubblica nell’interpretazione degli eventi e, attraverso questa, li hanno plasmati.
Un racconto delle Ficciones di Borges – Pierre Menard, autore del Chisciotte, è il paradigma interpretativo di tutta la vicenda. Non esiste un fatto in sé, come non esiste un’opera letteraria in sé: un fatto acquista un’essenza e un senso a seconda di quando accade e del contesto in cui accade.
A un caso letterario Sciascia risponde con un metodo d’investigazione letterario, preso a prestito dal primo detective libresco dell’epoca moderna, quel monsieur Dupin che attraverso la penna ispirata di Edgar Allan Poe poneva a precetto di ogni indagine la capacità di immedesimarsi. Immedesimarsi, per Sciascia, vuol dire restare fedeli alla realtà dei fatti e fedelmente interpretarla.
Immedesimarsi in Moro significa porre mente e cuore a comprendere chi era l’uomo, cosa voleva ottenere, in quali circostanze straordinarie si trovava e a chi si rivolgeva con la speranza di essere capito.
Il giallo di Moro è un giallo letterario perché si dipana attraverso lettere. Bollate dai protagonisti dell’indagine come frutto di delirio o estorsione, come “romanzi”, sono invece secondo Sciascia l’unico modo che Moro prigioniero ha di comunicare. Ne è consapevole: lo fa intendere lui stesso fin dalla prima lettera, quando dice di vivere le pene del suo stato con tutta «la sensibilità e la conoscenza» che gli derivano da una lunga esperienza. Di questa esperienza fa parte il linguaggio di Moro: un gergo cifrato, ora capzioso ora fumoso, che nel fumo dissolve ogni buona e cattiva intenzione. Sciascia lo paragona al latinorum di Renzo nei Promessi sposi ma vi ravvisa, paradossalmente, un formidabile codice per «dire senza dire» nei giorni della prigionia. A partire dal “romanzo” delle lettere lo scrittore svolge la sua indagine.
Che cosa vuole Moro? Essere liberato. Ha paura della morte? Non della morte fisica ma di quella intellettuale: paura di essere messo a tacere, di non poter ridire il suo viaggio all’inferno e rendere la sua ultima testimonianza di libertà. Detto con le parole di Pirandello, Moro prigioniero “si scioglie”: da “personaggio” diventa “uomo solo”, da “uomo solo” si fa “creatura”; entra tragicamente nella “vita”, la vita vera, e si salva. Di questo vorrebbe raccontare. Per questo tornare.
Come pensa di salvarsi? Liberato dalla polizia, inizialmente, e perciò prende tempo: si rifiuta di “collaborare” con i carcerieri, rallenta il “processo” a cui è sottoposto e scrive lettere in cui non manca di spargere indizi e suggerimenti. Al tempo stesso inizia a caldeggiare la “trattativa”: la considera una buona mossa tattica per tergiversare e poi, quando ogni tattica non ha più senso, una soluzione plausibile per salvargli la vita.
È un atto di pragmatismo politico: quando la necessità stravolge il diritto teorico, ha senso liberare una manciata di brigatisti (magari espellendoli dal territorio nazionale) in cambio di «una personalità che significa qualcosa per la vita dello Stato». Questa è per Moro la vera “ragion di Stato”.
Ma c’è di più. La trattativa risponde ai principi cristiani: far prevalere la vita, l’essere umano, in luogo di un’astratta idea dello Stato.
Uno Stato per di più finto e agitato come un feticcio, ringhia Sciascia. Nei suoi principi Moro resta fermo, mentre fuori imperversa il vero romanzo. Aldo Moro il politico, il filosofo, il temporeggiatore alla Kutuzov di Guerra e pace diventa nell’iconografia “lo statista”: il servitore fedele e la guida illuminata dello Stato. Questo Moro statista, si dice, capisce certamente che non si può trattare con le Brigate Rosse e le sue parole nelle lettere sono senz’altro frutto di plagio.
Ancora una “scrittura” decreta la morte civile di Moro: il 29 aprile una nota di governo, dai giornali attribuita ad Andreotti, ribadisce nello stesso linguaggio conciliante e sibillino del leader la “linea della fermezza”. Se lo spirito di Moro esiste anche senza Moro, allora davvero dello “statista” non c’è più bisogno.
E le Brigate Rosse? Apparentemente perseguono un disegno folle — completare la “rivoluzione” iniziata con la Resistenza — e invece finiscono per compattare i cocci dello Stato e favorire il compromesso storico tra Dc e Pci. Ma forse, novelli Amleto, i rapitori di Moro coltivano una lucida follia: vogliono “solo” spostare l’equilibrio delle forze tra democristiani e comunisti, facendo accettare ai primi la visione statolatrica dei secondi, o comunque agiscono per offrire al regime dei partiti un nuovo fondamento e un’estensione di vita.
Cambiare tutto per non cambiare niente, alla Tomasi di Lampedusa. A una prima analisi, che lo stesso Sciascia sembra avallare, Moro viene sacrificato perché è «il meno implicato di tutti». Come la prima vittima del generale rivoluzionario de L’aquila e il serpente di Martin Luis Guzman, è ucciso perché non ha oro da consegnare, per convincere chi l’oro ce l’ha davvero. E però, capitolo dopo capitolo, Sciascia riscrive la verità. Moro muore in quanto Moro, troppo imbarazzante e pericoloso per tutti: è la vittima di un gioco di potere, un rito che vede tutti i partecipanti più o meno esplicitamente d’accordo, una trama in cui nulla è casuale.
Nel suo affondo più duro Sciascia chiede di nuovo aiuto al Borges labirintico delle Ficciones. Dentro un racconto della raccolta il grande porteño esamina un giallo immaginario: c’è un assassinio iniziale, un’indagine, una soluzione apparente e poi un paragrafo finale e retrospettivo nel quale, da un’unica insinuazione, si capisce che la vera soluzione è quasi certamente un’altra. Anche al suo affaire Sciascia ritaglia un abito di dubbio, per così dire, “metodico”. È un altro caso in cui la letteratura reinterpreta la realtà, solo per chi non vuole credere che stavolta la smaschera.