Quaranta anni fa, durante le proteste contro il regime di Pinochet nel decennale del golpe dell’11 settembre, andai in Cile armato di penna, quaderno e di spirito d’avventura. Ero solo e in tasca avevo il telefono dei dimafonisti de “Il Popolo” per il quale scrissi qualche corrispondenza. Il Paese era in fermento ed io con i miei giri, gli incontri e le interviste dovevo capirne le ragioni. Non era facile perché per comprendere il senso profondo della protesta bisognava liberarsi della narrazione che fin lì era stata fatta (almeno in Italia) del “pueblo unido jamas serà vencido” che ogni anno risuonava con grande eco mediatico alle feste de “L’Unità” e nei tanti raduni e incontri della sinistra. Lo slogan (tratto da una canzone degli Intillimani), ammetto, aveva una sua carica di suggestione, ma una volta entrato nell’inverno cileno compresi che quell’espressione non corrispondeva alla realtà. Era semplicemente ideologica.
Il Cile a differenza di tanti altri Paesi del continente sudamericano, aveva una realtà sociale nella quale il ceto medio era stato – ed era – decisivo con la sua sponda politica nella Democrazia Cristiana. È vero che da lontano le differenze nella protesta generalizzata si vedevano poco, ma da vicino, parlando con i protagonisti politici e sindacali,le differenze emergevano con chiarezza a partire proprio dai ricordi del golpe militare di dieci anni prima.
Allende era salito al potere sì con il voto popolare, ma anche con il beneplacito della Dc che, convinta dalla tenuta democratica del sistema, temeva conseguenze peggiori. Fu uno sbaglio? Forse no, anche perché la classi medie erano abbastanza aperte verso la novità. Le cose però andarono diversamente e Unidad Popular (la coalizione di governo) si spinse molto in avanti fino ad impattare con lo sciopero dei camionisti che di fatto bloccò il Paese esasperando la popolazione. Mancavano i beni essenziali, i mercati erano deserti. In questa situazione estrema, mi raccontò il cardinale primate Raul Silva Enriquez che incontrai nella sua semplice casa, Allende lo andò a trovare, ma non volle accettare il consiglio di fare un passo indietro e di trattare con la Dc e gli altri partiti. Così scelse la via più tragica per sé e per il suo popolo. E fu il golpe crudele e repressivo di cui tutti siamo stati lontani spettatori.
Avvenimenti di un altro secolo è vero, ma con un nucleo di verità che ancora oggi, in tante situazioni neppure paragonabili, possiamo però leggere politicamente. La vicenda cilena insegna che nelle società complesse con dinamiche di ceti diversi la polarizzazione dello scontro politico non paga. Non avere compreso l’importanza del centro sociale ha avuto tragiche conseguenze.
Certo, non si possono fare paragoni con la nostra situazione; è vero. Ma l’evocazione di quei fatti lontani però ci fa capire quanto sia importante che la politica non si lasci prendere dall’ideologia e mantenga sempre vivo il suo rapporto con la società e con gli interessi legittimi dei diversi ceti che la compongono. Il “pueblo unido” è una forzatura ideologica ovunque. La democrazia (non quella bipolare che appunto esalta le polarizzazioni), presuppone infatti un’azione politica capace di comporre le differenze tra i legittimi interessi contrastanti. È difficile? Certo che lo è; ma è anche la ragione più vera che motiva una organizzazione nuova e forte di un centro politico capace di interpretare il Paese e rilanciarne il suo sviluppo.