Riflessioni sulle elezioni amministrative e le contraddizioni del Partito democratico

Il Pd ha dismesso l’abito del partito politico per prendere la forma di un comitato elettorale nel quale ogni gruppo bada a marcare stretto tutti gli altri per mantenere salde le proprie posizioni.

Nello scorso fine settimana si è votato il primo turno delle elezioni amministrative, in alcune importanti città italiane. C’è attesa febbrile per i ballottaggi: si dice che (ad esempio) Ancona potrebbe andare per la prima volta a un sindaco di centro-destra.

Il Partito democratico, cioè l’unico aggregato politico che in Italia somiglia (o potrebbe somigliare) a un partito propriamente detto, si ritrova nella condizione di impotenza che affligge chi non è in grado né di fare da solo né di coalizzare e di unificare (su un candidato sindaco, una squadra, un’idea) un blocco di forze. Diverse, sì, ma convinte di avere in comune qualcosa di più della semplice avversione alla destra. 

Il discorso vale naturalmente per il governo del Paese, ma anche, eccome, per le città. E in particolare per quelle dalle quali partì – trent’anni fa – la «rivoluzione dei sindaci». Nel 1993, Francesco Rutelli era un ex radicale approdato temporaneamente in casa dei Verdi, dal peso specifico elettorale paragonabile a quello di un medio politico di oggi.

Eppure vinse per due volte le elezioni e governò bene, nel complesso, la (difficile) situazione della Capitale. Grazie alle sue capacità, naturalmente: ogni tanto capita che l’abito faccia il monaco. Ma anche grazie al fatto che attorno a lui si erano radunate diverse forze politiche, sociali, intellettuali, personalità della cultura (basti pensare alla scena di Nanni Moretti in vespa nel film Caro Diario), tenute insieme dalla volontà comune di organizzare e governare il cambiamento, indicandone gli obiettivi e individuando gli strumenti più adatti per realizzarli. Va detto, in una situazione economica, diversa dall’attuale, in cui i Comuni avevano (ampie) possibilità di spesa.

Questo “laboratorio politico” cominciò a perdere pezzi, o almeno a reclamare seri lavori di manutenzione (che però non vennero mai effettuati), già sul finire degli anni Novanta del secolo scorso. 

Ma è negli anni Duemila che se ne sono smarrite o, per meglio dire, che il Pd ne ha smarrito totalmente le tracce, senza che a nessuno venisse in mente di provare a rintracciarle. Forse perché nella “fusione a freddo” (tra i Ds e la Margherita) fin dall’inizio il vecchio ha trascinato il nuovo e il partito della conclamata «vocazione maggioritaria» delineato al momento della nascita, nell’ormai lontano 2007, ha cominciato a morire prima ancora di nascere davvero. Forse perché di un partito così non ce n’era bisogno.

Sono polemiche antiche, sulle quali non vale la pena tornare. In ogni caso, il Pd ha dismesso da tempo l’abito del partito politico (tradizionale o di tipo nuovo, liquido o gassoso poco importa) per prendere la forma di un comitato elettorale, nel quale ogni gruppo o sotto-gruppo bada soltanto, secondo una logica di pura sopravvivenza, a marcare stretto tutti gli altri per mantenere salde le proprie posizioni. Intendiamoci, tutto questo, nella politica italiana, c’è sempre stato.

Ma, se c’è soltanto questo, di politica “vera” (non quella dei social) non se ne fa più.