“Ci sarà il coraggio di ricominciare?” La domanda venne posta da Luigi Granelli al Congresso del PPI di Rimini nell’ottobre del 1999, poche settimane prima di morire (1 dicembre 1999).
Qual è il coraggio di ricominciare? In politica il coraggio di ricominciare significa saper andare controcorrente rispetto alle mode e alle tendenze di questo tempo così gravido di problemi, di stili di vita economico-sociali che soffocano dall’alto quella che Giorgio La Pira chiamava l’attesa della povera gente.
Il coraggio di ricominciare significa, altresì, lottare per l’affermazione di una idea morale che sappia incarnare i veri valori della persona umana in questa vita terrena; che sappia liberarla dalla schiavitù dell’odio, del rancore e che la conduca su quel terreno dell’uguaglianza sociale ed economica.
Paolo VI ci ha insegnato che “la politica è la più alta forma di carità”, volendo con questo dire che non si tratta di semplice elemosina verso chi ha bisogno, ma di concepire la politica come servizio disinteressato e non come mezzo per carriere personali.
Non è più inutile in questo tempo il riferimento ad una forza politica di centro che sappia mettere saldi paletti rispetto alle estreme tendenze politiche, che realizzi, come sostiene Lucio D’Ubaldo, nel solco di una “evangelizzazione che fa dell’amore per l’umanità – contro la cultura dello scarto e la primazia del denaro, i pregiudizi della xenofobia, le diseguaglianze sociali e le chiusure sovraniste – la chiave di volta del cambiamento necessario.”
Ma tutto questo ha un senso e si giustifica nell’ottica del ritorno ad un popolarismo liquidato troppo in fretta da una classe dirigente avida di potere e di scalate personali, preoccupata più del possedere azioni da rivendicare a proprio favore in un contesto politico che non ha né un cuore, né un’anima.
Guardare al passato, alla storia, non in maniera nostalgica, ma come esempio e studio delle varie fasi che hanno accompagnato la discontinuità del pensiero più limpido dell’esperienza della prima Democrazia Cristiana murriana, del Partito Popolare sturziano e poi, nel secondo dopoguerra, da De Gasperi a Moro, ci fa comprendere che proprio il popolarismo non è mai morto. La nostra idea vive e si incarna giorno dopo giorno con i nuovi problemi dell’umanità, con una economia mondiale che ormai mostra tutti i suoi limiti rispetto alla cultura del profitto, del guadagno di pochi che sfruttano il lavoro di molti.
Allora, in questo contesto, non servono più sigle e siglette che in ogni appuntamento elettorale escono fuori come funghi in funzione di poltrone residuali personali, né tanto meno tutti coloro che per continuare ad occupare una poltrona ministeriale non hanno più niente da dire al popolo italiano in termini di proposta politica, di costume, di idee e di valori che i migliori uomini dell’esperienza politica popolare e democristiana hanno saputo dare ad un vasto elettorato cattolico e laico.
Per questi motivi alla domanda iniziale di Luigi Granelli dovremmo rispondere affermativamente. Il coraggio oggi deve riguardare il rapporto con la società, nella consapevolezza di dover reincarnare un’idea alta di politica con i problemi quotidiani della gente.
Ma per far questo occorre anche una identificazione precisa: non è più azzardato oggi, né tanto meno sorpassato, “quel ritorno al futuro” di Martinazzoli per chiedere, ancora una volta, con insistenza legittima a chi si sente depositario unico di un nome e di un simbolo che appartiene, invece, a milioni di militanti che hanno lottato senza tornaconti personali per l’affermazione degli ideali popolari.