Ruggero Orfei e “Settegiorni”, un modello di giornalismo politico e di coerenza culturale.

 

La rivista era nata nel 1967 e ha chiuso i battenti nel 1974 dopo il referendum perso dalla Democrazia Cristiana e dai cattolici sul divorzio. I “pezzi” di Ruggero Orfei e del suo condirettore, Piero Pratesi – accanto alle cento firme – erano appuntamenti imperdibili per qualsiasi osservatore politico dell’epoca.

 

Giorgio Merlo

Ho fatto la tesi di laurea sulla rivista “Settegiorni in Italia e nel mondo”. Una rivista nata nel 1967 e che ha chiuso i battenti nel 1974 dopo il referendum perso dalla Democrazia Cristiana e dai cattolici sul divorzio. Ora, non voglio rileggere — come ovvio e scontato — l’esperienza di un settimanale che ha contribuito a segnare il cammino politico, culturale e sociale dei cattolici italiani e che, al contempo, ha scosso l’evoluzione e il percorso della stessa politica italiana. E la scomparsa recente del suo storico direttore, l’amico Ruggero Orfei, mi spinge a fare qualche rapida considerazione attorno ad un foglio che resta unico per la sua dimensione e per il ruolo che ha avuto nello scenario pubblico italiano in una fase storica decisiva per le sorti della nostra democrazia. Anche per il giornalismo italiano. Perchè “Settegiorni in Italia e nel mondo” non solo è stata una rivista politica e culturale vicina alle posizioni della sinistra sociale della Dc di Carlo Donat-Cattin, ma è stata anche e soprattutto una rivista che ha fatto del giornalismo di inchiesta – quello vero, però, senza alcun paragone e confronto per come è ridotto oggi quel settore – la sua ragion d’essere.

 

Certo, l’approfondimento politico e culturale era la vera priorità di questa scommessa editoriale guidata da Donat-Cattin – quella di maggior successo insieme alla rivista “Terza Fase” degli anni ‘80 – e con l’elaborazione puntuale ed intelligente di molti e qualificati collaboratori, “Settegiorni” era diventata un punto di riferimento da cui non si poteva prescindere. Sia all’interno della Dc e del mondo cattolico italiano dell’epoca e sia per gli altri partiti. In particolare per i partiti della sinistra storica e non solo. E i “pezzi” di Ruggero Orfei e del suo condirettore, Piero Pratesi – accanto alle cento firme – erano appuntamenti imperdibili per qualsiasi osservatore politico dell’epoca.

 

È indubbio, al riguardo, che Ruggero Orfei, anche se dopo l’esperienza di “Settegiorni” cambiarono i rapporti, ma non l’amicizia, tra la direzione della testata e i suoi finanziatori politici, condivideva sino in fondo l’idea di una presenza politica di ispirazione cristiana, popolare, autonoma e fortemente rappresentativa delle istanze dei ceti sociali popolari e cattolici. Un partito che non poteva e non doveva diventare un semplice e banale “polo conservatore” funzionale ad una alleanza con l’altro grande blocco, il Pci, con un probabile se non addirittura scontato cedimento culturale ed ideale nei confronti del più grande partito comunista occidentale. Una presenza politica, certamente di ispirazione cristiana, ma con un forte insediamento territoriale e una chiara opzione sociale. Per questo Orfei, all’epoca, dissentiva da tutte le interpretazioni che volevano una Dc conservatrice se non addirittura reazionaria, ripiegata su posizioni clericali o confessionali che appaltava la rappresentanza dei ceti popolari e socialmente più avanzati alla sinistra comunista e marxista.

 

Ecco perchè c’era una profonda simbiosi tra il Direttore di “Settegiorni” Orfei e l’editore politico Donat-Cattin. Perchè al centro della discussione c’era sempre e solo la necessità di salvaguardare una tradizione, quella cattolico popolare, cattolico sociale e cattolico democratica che individuava nella Dc di sinistra un baluardo centrale ed insostituibile. E quando parliamo di Ruggero Orfei, oltre alla sua vasta, ricca e feconda pubblicazione politica, culturale e religiosa, non possiamo e non dobbiamo dimenticare l’esperienza di “Settegiorni in Italia e nel mondo” che, ripeto, ha segnato la storia del giornalismo politico nel nostro paese.