Sánchez torna al governo, la Spagna trema per il peso degli indipendentisti.

È innegabile che la posta in gioco sia altissima in quanto l’obiettivo dei catalani – mai rinnegato – è rimasto quello originario: la secessione dalla capitale. E questo è inaccettabile per Madrid.

Non v’è più dubbio alcuno sull’abilità politica di Pedro Sánchez, nuovamente capo del governo spagnolo, per la terza volta, a soli 51 anni. Anche stavolta con una maggioranza parlamentare risicata e dai contorni non chiarissimi. La sua scommessa estiva, andare subito alle urne e giocarsi il tutto per tutto dopo la sconfitta del suo partito alle amministrative, presa nonostante fosse divenuto da pochi giorni il presidente di turno semestrale della UE e in molti gli consigliassero di attendere la conclusione naturale della legislatura, è stata vinta.

Il suo Psoe non ha perso le elezioni, pur prendendo meno voti del Partido Popular; la sinistra radicale presentatasi col nuovo contenitore Sumar (inclusivo della vecchia Podemos), guidato dalla combattiva Ministra del Lavoro Yolanda Diaz ha conseguito un risultato più che discreto; il PP di Alberto Nunez Feijòo non ha ottenuto quella maggioranza parlamentare che sperava di conseguire tramite un’alleanza con l’estrema destra di Vox senza però esserne succube (e quindi aveva fatto una campagna elettorale intesa a togliere voti a quest’ultima, operazione però riuscita solo in parte, perché al tempo stesso ha provocato la probabile perdita di voti “centristi”, dirottatisi altrove e in particolare verso i partiti autonomisti presenti in Catalonia, Galizia, Paese Basco, Canarie); la destra franchista di Vox è stata sconfitta. Un quadro confortante per Sánchez, che a inizio estate non era forse neppure immaginabile. Ora egli ha aumentato il suo prestigio anche a livello continentale: per curriculum, età, capacità dimostrate e rilievo del paese che guida ha molti atout per divenire il leader dei socialisti europei, cosa che non può certo divenire lo scialbo cancelliere tedesco Olaf Scholz. Tutto bene, dunque? Nient’affatto.

Il prezzo che Sánchez ha dovuto pagare per vincere la sua arrischiata scommessa è molto alto. Radicale in tema di diritti civili, egli è assai più moderato in materia economica. Ora il ruolo protagonista che già nel precedente esecutivo la leader di Sumar aveva saputo ritagliarsi verrà ulteriormente accentuato: non v’è dubbio che l’ambizione del nuovo partito sia di spostare quanto più possibile a sinistra l’azione dell’esecutivo e con ciò porre in affanno una larga parte del mondo socialista tradizionale più attento sin dai lontani tempi di Gonzales alle ragioni non solo dei lavoratori (richiamo che orgogliosamente rimane nel simbolo del partito) ma anche a quelle della piccola e media imprenditoria e delle libere professioni. I voti di Sumar sono essenziali e questo a Sánchez è facile prevedere verrà ricordato spesso. Lo si è visto da subito, nel programma presentato dalla coalizione governativa, che prevede non solo la conferma del salario minimo ma pure una più discutibile e ardita riduzione dell’orario settimanale lavorativo sino a 37,5 ore a parità di salario.

Ma c’è un altro problema, ben maggiore in quanto pone a rischio l’unità della Spagna. Sánchez ha avuto luce verde in Parlamento grazie al voto degli indipendentisti catalani, oltre che a quello degli autonomisti del Paese Basco, della Galizia e delle isole Canarie: il prezzo pagato ai primi è stato l’impegno per garantire l’amnistia per tutti i reati contestati ai circa 1400 dirigenti e attivisti dei partiti indipendentisti catalani in occasione della autoproclamata secessione dalla Spagna in seguito al referendum incostituzionale tenuto nel 2017.
Ora, se da un lato si può sostenere, con Sánchez, che si tratta di un atto pacificatore utile per superare le tensioni esasperate del 2017, dall’altro è innegabile che la posta in gioco sia altissima in quanto l’obiettivo dei catalani – mai rinnegato – è rimasto quello originario: la secessione da Madrid. E questo è inaccettabile per Madrid, per lo stesso Sánchez. Che infatti sul tema è rimasto assolutamente muto nel discorso di investitura parlamentare e per ciò è stato criticato nel dibattito dai deputati autonomisti catalani.

La Destra, intenta da un lato a leccarsi le ferite e dall’altro a cominciare l’inevitabile regolamento di conti interno, ha immediatamente convocato la piazza denunciando il “golpe” intentato ai danni della sovranità della nazione. Una piazza che ha risposto numerosa, in verità. Anche in maniera scomposta e talvolta violenta. Criticata a ragione da Isabel Diaz Ayuso, presidente della comunità di Madrid. All’interno del PP la battaglia è appena iniziata. Ma molti segnali indicano proprio nella combattiva “presidenta” la prossima avversaria di Sánchez. Dotata di quel carisma che Alberto Nunez Feijòo, vincitore nominale delle elezioni ma sconfitto effettivo in Parlamento, evidentemente non possiede.