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martedì, Febbraio 11, 2025
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Se i partiti si fermano, la democrazia vacilla.

Siamo di fronte ad un radicale mutamento antropologico e tuttavia non si può eludere la questione di rivitalizzare quegli strumenti indispensabili alla vita democratica che in passato abbiamo chiamato partiti.

Giorgio Merlo ci ha invitato a riflettere sul rapporto tra partito e democrazia. Potremmo partire da due affermazioni che appaiono scontate, ma che sono di fatto ignorate nel dibattito politico. Non può esistere democrazia senza popolo, e non può esserci un popolo che partecipa attivamente alla vita democratica senza strumenti organizzativi per farlo in modo incisivo, come del resto prevede la Costituzione all’art.48.

In quella che Scoppola felicemente definì la Repubblica dei partiti la vita democratica era accompagnata dal popolo, e questa è sempre stata la sua forza: già alle elezioni per l’Assemblea Costituente nel 1946 votano per la prima volta le donne e vota l’89% degli aventi diritto. Nel 1979, in un paese attraversato da forte tensioni sociali, con l’Autunno caldo e le proteste studentesche vota il 94% degli elettori, nel 1992, ultime elezioni con l’assetto politico uscito dalle grandi prove elettorali del 1946 e del 1948, con il sistema dei partiti già logorato, vota comunque l’87,3%. Nel 1979 alla prime elezioni europee partecipa l’86,1%, nel 2024 siamo arrivati sotto il 50%: 49,7%, e sotto il 50 sono state anche le consultazioni regionali in Emilia Romagna e in Liguria.

I partiti, con tutti i limiti storici che possiamo riconoscere, hanno svolto quattro grandi funzioni vitali. La prima è stata la capacità di offrire alle masse popolari una proposta di senso, di indicare una direzione di marcia in grado di nutrire speranze singole e collettive per un futuro migliore. Leader autorevoli sapevano offrire un’agenda politica lungimirante, avendo ben presente i vincoli del presente, ma sapendo spingere lo sguardo oltre. Leadership autorevoli ma non solitarie. Parlo della storia della Dc che conosco meglio. Quando Moro guida l’apertura a sinistra comprende tutte le difficoltà che deve affrontare. Da segretario nazionale al Congresso di Napoli del 1962 parla 6 ore per motivare il passo politico necessario, tranquillizzare i timorosi ed evidenziare la necessità di questo passo. Poi nel 1963 il via libero definitivo viene dato da un Consiglio Nazionale che si tiene per 5 giorni dal 29 al 2 agosto, con un articolatissimo dibattito che vede l’intervento di 76 dirigenti… Quantum mutatus ab illo…

Il secondo punto di forza è stata la capacità di essere comunità vitali, di vivere pelle a pelle con la società, di innervarla e di esserne innervati. Partiti accompagnati da un solido progetto organizzativo. Perché nulla dal punto di vista del consenso poteva considerarsi regalato, doveva essere il frutto di un capillare lavoro politico. Faccio un esempio: nel biennio 1965–1966 la Dc padovana tenne sul territorio 1206 incontri, tra incontri di indirizzo politico (erano gli anni di consolidamento del centro sinistra), di preparazione per le scadenze elettorali, di natura organizzativa (congressi di sezione e di zona, preparazione delle manifestazioni, ecc.). È già un fatto che si tenessero le statistiche degli incontri…

Un terzo elemento di forza è stata la cura posta nella formazione delle classi dirigenti dei partiti. Erano le famose scuole di partito, anche qui con un impianto capillare, che partiva da una formazione di base a livello comunale e provinciale per arrivare alla scuola centrale di partito. Per comprendere la natura dell’investimento formativo che anche la Dc faceva per reclutare nuovi quadri dirigenti posso raccontare la mia esperienza di giovane studente universitario, attivo nei movimenti studenteschi, selezionato alla fine degli anni ‘60 dopo un colloquio con il Segretario provinciale e invitato ad un corso residenziale di una settimana sul lago di Garda. Ricordo ancora una dispensa di oltre 200 pagine in cui si illustravano i motivi filosofici, politici, economici e sociali che dovevano reggere il rapporto di alleanza con il Partito Socialista.

Infine, un ultimo elemento significativo consisteva nei processi di selezione competitiva nella formazione degli organi decisionali del partito e delle delegazioni istituzionali: comuni, province, parlamento e dal 1970 le Regioni. Oggi se penso anche al mio partito, il Pd, i meccanismi di selezione sono tutti verticistici e leaderistici. I congressi ai diversi livelli territoriali fino al nazionale sono competitivi solo sul nome del leader, che fidelizzano le liste di sostenitori rigorosamente bloccate e decise dall’alto, senza nessuna possibilità di selezionare dal basso la formazione degli organi dirigenti. Per forza un Parlamento di nominati non ha autorevolezza rispetto al Governo.

Sono modelli non replicabili in queste forme nella società come è fatta oggi. Però serve a comprendere che il largo rapporto di fiducia che si conquistavano i partiti era figlio di un capillare lavoro politico: conoscere il popolo come è fatto, rappresentarlo, affiancarlo nelle battaglie sociali. E a fianco dei partiti grandi organizzazioni sindacali.

Ciò che abbiamo davanti non è semplicemente uno spostamento a destra delle opinioni pubbliche mondiali. Ciò che sta succedendo a partire dagli Stati Uniti è un orientamento dell’opinione pubblica che rinnega i fondamenti costituzionali e democratici su cui ha vissuto il mondo (almeno quello occidentale) dopo la caduta dei grandi regimi totalitari del ‘900. Si sta realizzando ciò che Hannah Arendt aveva previsto già negli anni ‘60 del secolo scorso nel suo saggio sui totalitarismi: “Il suddito ideale del regime totalitario è l’individuo per il quale la distanza tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più”.

Resta il fatto che l’esaurimento delle grandi funzioni svolte dai partiti usciti dalla Costituente trova delle ragioni anche nell’indebolimento di quei quattro fattori di forza che ho ricordato: leadership orientate alle ragioni del futuro, pur nella concretezza dei rapporti di forza del presente; presidio della società nelle sue diverse componenti; formazione di quadri politici competenti, assicurando una trasmissione dei saperi; selezione di gruppi dirigenti in modo competitivo. Così la stagione di Mani Pulite si abbatte su un sistema dei partiti già in crisi strutturale. L’esito non sarà come qualcheduno si era illuso una rinnovata Repubblica degli onesti, ma l’apertura di un lungo ciclo dominato da populismi di varia estrazione, dal ventennio berlusconiano alla fortunata espressione della rottamazione, alla polemica sulla classe politica ridotta a “casta”, fino al vaffa grillino, con esito finale uno spostamento a destra del paese.

La società è profondamente cambiata, siamo di fronte ad un radicale mutamento antropologico e tuttavia non si può eludere la questione di rivitalizzare quegli strumenti indispensabili alla vita democratica che in passato abbiamo chiamato partiti. Se i partiti accettano di essere partiti (participio passato) accettano l’irrilevanza e quindi la loro inutilità.