La politica estera, storicamente, è stato il versante su cui si sono costruite – o si sono distrutte – le alleanze e le stesse coalizioni di governo. Basti pensare, per fare un solo esempio concreto, alla cinquantennale esperienza della Democrazia Cristiana dove proprio la chiarezza e l’unità sulla politica estera era l’elemento decisivo e qualificante per la durata di quei governi e, soprattutto, per l’omogeneità di quelle alleanze. O, per quanto riguarda la seconda repubblica, la fragilità politica e progettuale delle coalizioni che proprio su quei temi registravano una persistente ed inquietante divaricazione. È appena il caso di ricordare le scelte della sinistra massimalista ed estremista durante il primo e il secondo Prodi. Ma, al di là delle singole vicende che hanno caratterizzato la storia democratica del nostro paese, è indubbio che quando c’è una divaricazione sulla politica estera una coalizione – anche se viene costruita con la logica del pallottoliere per vincere contro il “nemico” giurato ed implacabile – è destinata a sciogliersi come neve al sole nell’arco di poco tempo.
Gli esempi che oggi abbiamo sotto i nostri occhi lo confermano in modo persino plateale. Se nella maggioranza di governo c’è il comportamento irresponsabile ed avventuriero della Lega di Salvini che si distingue continuamente rispetto alla strategia europeista ed atlantica garantita da Tajani e dalla stessa Premier, nel campo dell’opposizione la situazione è ancor più grave ed inquietante al punto che non si riesce ad organizzare neanche una manifestazione di piazza sotto lo stesso ombrello. Che si parli dell’Ucraina come di Gaza, del futuro della sicurezza dell’Europa come del rapporto con gli Stati Uniti c’è sempre una divaricazione radicale che impedisce, di fatto, la costruzione di un progetto di governo comune, coerente ed omogeneo. Ovvero, manca qualsiasi prospettiva comune – e quindi di governo – su come costruire una coerente e credibile politica estera del nostro paese. E quando manca questa chiarezza è abbastanza inutile ricordare che non c’è alcuna possibilità di costruire anche solo un barlume di cultura di governo. Perché tutto è affidato alla casualità, al pressappochismo e all’avventurismo dei singoli partiti e dei rispettivi capi. Come, puntualmente, sta capitando attualmente.
Ma, quel che più conta è che quando proprio sulla politica estera si ricerca una distinzione e, soprattutto, si radicalizzano le posizioni, si lavora direttamente per indebolire il ruolo e il peso dell’Italia a livello europeo ed internazionale. E la manifestazione indetta dalle tre sinistre italiane per il prossimo 7 giugno – quella radical/massimalista della Schlein, quella populista e demagogica dei 5 stelle e quella estremista ed ideologica del trio Fratoianni/Bonelli/Salis – è la plastica dimostrazione di come si può spaccare un paese in un momento delicato e complesso come quello contemporaneo.
Quando la politica estera di un paese diventa solo un grimaldello per regolare i conti della politica interna, si persegue l’unico risultato di mettere in discussione la credibilità e l’autorevolezza di un intero paese. Che lo faccia anche il Pd, storico partito di governo – sui 5 stelle e sulla sinistra estremista di Avs è inutile soffermarsi – è un fenomeno che rattrista e che dimostra come ormai la radicalizzazione ideologica ha conquistato definitivamente la guida politica di quel partito. Con tanti saluti al principio della necessaria ed indispensabile convergenza sulle linee di fondo della politica estera di un intero paese.