Uno degli elementi portanti e costitutivi dello storico “Statuto dei lavoratori” varato nel maggio del 1970 non fu soltanto aver portato “La Costituzione nelle fabbriche”, come disse nel dibattito alla Camera il “Ministro dei lavoratori” dell’epoca, Carlo Donat-Cattin. Ci fu un altro elemento che qualificò quella legge che ha segnato in modo indelebile e profondo la legislazione democratica e riformista sul lavoro nel nostro paese. E quel tassello fu l’introduzione, appunto, dell’art. 18 che impediva, di fatto, il licenziamento dei lavoratori nelle aziende che avevano oltre 15 dipendenti.
Norma che fu ritoccata pesantemente prima dalla riforma Fornero e poi da quella varata da Renzi con il jobs act riducendolo ad un semplice indennizzo.
Ora, è di tutta evidenza che nessuno vive di nostalgia o di solo rimpianto. Certo, l’azione e l’iniziativa politica e di governo di Donat-Cattin, leader della sinistra sociale della Dc, non hanno più avuto eguali nella storia democratica del nostro paese. Seppur nel rispetto di tutti i Ministri del Lavoro che si sono succeduti – e ci fermiamo alla prima repubblica perchè nella seconda, e senza alcun pudore, diventa Ministro del Lavoro addirittura Di Maio, l’ex bibitaro dello stadio San Paolo – quella riforma ha segnato la legislazione del mondo del lavoro, la condizione concreta dei lavoratori e anche, e soprattutto, le relazioni tra le parti sociali. Una riforma che, al di là del trascorrere inesorabile del tempo, continua ad essere una bussola di riferimento per chi crede che i principi costituzionali debbano trovare una seria ed organica cittadinanza nei luoghi di lavoro. In tutti i luoghi di lavoro. Al di là e al di fuori dell’art. 18 che il capo della cosiddetta “rivolta sociale”, ovvero il segretario generale della Cgil Landini, vorrebbe ripristinare. Posizioni, come quella di Landini, che sono comunque lontane anni luce rispetto all’approccio riformista e democratico di uomini e statisti statisti come Donat-Cattin. Pur nella radicale diversità dei rispettivi contesti politici, culturali e sociali.
Ma, al di là di queste considerazioni e del dibattito un po’ surreale sull’art.18 – al centro, comunque sia, della prossima consultazione referendaria – quello su cui sarebbe necessario avviare una riflessione seria ed argomentata è la necessità di riscrivere un nuovo “Statuto dei lavoratori”. Partendo, come ovvio e scontato, proprio dallo Statuto varato nel 1970 che conserva una straordinaria modernità anche nell’attuale contesto del mondo del lavoro seppur ad oltre 50 anni dall’approvazione di quello storico documento. Ma per potere centrare quell’obiettivo sono necessarie due condizioni di fondo. Da un lato una precisa volontà politica del Ministro del Lavoro e dell’intero Governo e, dall’altro, un’azione del sindacato che sia ispirata ad un vero ed autentico riformismo. Cioè l’esatto opposto di quello che pratica oggi lo storico sindacato rosso, ovvero la
Cgil. Solo attraverso un ragionamento e una rivisitazione dello Statuto votato nel 1970, sarà possibile far decollare una nuova legislazione che deve fare i conti con le condizioni dei lavoratori da un lato e la dinamica dei nuovi lavori dall’altro. Senza accampare le ormai stucchevoli pregiudiziali ideologiche e politiche della Cgil o la solita strategia dell’opposizione del “tanto peggio tanto meglio” cara, purtroppo, a molti settori della sinistra contemporanea.