Sono decine i conflitti in corso nel mondo ma solo i due principali suscitano l’interesse dei media internazionali e l’attenzione delle opinioni pubbliche occidentali. Ce n’è però un terzo egualmente devastante e anch’esso apparentemente senza spiragli di pace del quale si parla poco ma che invece merita di emergere dalla nebbia nella quale è avvolto ed è in atto nel Sudan, Africa orientale. Un enorme paese attraversato dal Nilo confinante a nord con l’Egitto e a sud-est con Eritrea ed Etiopia ma soprattutto con centinaia di km di costa sul Mar Rosso, dunque collocato in una zona strategica per i commerci mondiali, oggi sottoposta alle incursioni dei droni e dei missili dei guerriglieri houthy.
In Sudan, non bastassero gli atavici problemi di sopravvivenza di larga parte della popolazione, nonché quelli politici di relazione con gli stati confinanti, dall’aprile dell’anno scorso anno è in svolgimento una sanguinosa guerra civile che oppone il Sudan Armed Forces (SAF), ovvero l’esercito nazionale (il cui comandante è il generale Abdel Fattah al-Burhan), al gruppo paramilitare delle Rapid Support Forces (RSF) del generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Harmedti, che del primo fu il principale collaboratore. I due avevano infatti, appena due anni prima, posto in essere un golpe che aveva vanificato il tentativo democratico avviato attraverso un governo civile di transizione guidato da Abdalah Hamdok all’indomani della rivolta popolare che nel 2019 aveva abbattuto la dittatura islamica di Omar al-Bashir.
Anche qui potenze straniere supportano militarmente i combattenti sul campo, secondo l’ormai usuale schema dei “conflitti per procura”: in questo caso abbiamo Egitto e Arabia a supporto dell’esercito nazionale; Emirati Arabi e Russia sostengono la RSF. E anche qui, come sempre, chi paga il prezzo della guerra sono le popolazioni civili, già povere di loro e adesso anche devastate dalle distruzioni provocate dal conflitto. Che a oggi ha già causato una orrenda carneficina (vengono stimate fra le 100 e le 150.000 vittime) nonché una tragedia quotidiana che affligge i circa 45 milioni di sudanesi, metà dei quali patisce la fame, in condizioni ambientali terribili e addirittura peggiorate con le piogge torrenziali della scorsa primavera.
Una drammatica situazione che, inevitabilmente, produce immensi spostamenti di esseri umani disperati: sono oltre 10 milioni gli sfollati, e oltre 2 milioni i profughi. L’ONU ha descritto la situazione sudanese come “una delle peggiori crisi umanitarie degli ultimi decenni”. Eppure sino ad oggi – forse anche a causa dell’impatto certamente molto più forte delle due guerre principali in ragione dei loro risvolti geopolitici – essa non ha destato l’attenzione mondiale che al contrario meriterebbe.
Lo scorso 14 agosto si sarebbero dovuti avviare a Ginevra i negoziati per un cessate-il-fuoco che avrebbe dovuto consentire alle organizzazioni umanitarie internazionali di poter avviare un percorso di assistenza ad una povera popolazione stremata dalla fame, dalla violenza e da una incipiente carestia. Ma l’iniziativa è fallita prima ancora di iniziare, perché il governo di Khartoum ha declinato l’invito, così come ha risposto picche all’ONU, che aveva proposto di inviare una sua missione appunto per proteggere la popolazione civile allo stremo.
Così la guerra civile prosegue e ognuno dei combattenti intende proseguirla, convinto di poterla vincere. Nel (quasi) disinteresse della comunità internazionale ma non della Russia, intenzionata a creare una base militare sulle coste sudanesi del Mar Rosso nell’ambito della sua progressiva e costante penetrazione nel continente africano. Intanto, la gente soffre la fame e muore.