Tajani, gregario delle destre. Il centro diventa la nuova frontiera politica.

Sempre più difficile per Forza Italia continuare a ritenersi punto di equilibrio della maggioranza di governo. Si apre dunque la strada per una “coalizione di centro” tra forze liberaldemocratiche, riformiste e azioniste.

È appena di ieri la disastrosa  vicenda del voto sul Mes in parlamento con l’uscita dall’aula, al momento del voto, dei deputati di FI per consentire con il loro astensionismo di far prevalere la maggioranza del no. Un esito che ha lasciato di stucco buona parte dell’opinione pubblica, favorevole al Mes, spiazzando le Cancellerie europee.

Eppure l’europeismo di Tajani sembrava incrollabile. Surclassato da una vocazione alla subalternità e al tatticismo, sperimentata prima nel partito di Berlusconi, si è prestato supinamente al gioco degli alleati dove quel meccanismo è andato sempre di traverso, eppure usato spregiudicatamente in questi mesi come merce di scambio per ottenere ascolto o vantaggi in campo negoziale sulle diverse questioni aperte con la Commissione europea che affliggono il nostro paese, a cominciare dalla vertenza sul nodo concernente l’immigrazione.

Ora, non c’è commentatore politico che non scorga, ma anche buona parte dell’opinione pubblica si è resa conto che questo marchingegno machiavellico, nell’intento di mascherare un reale appoggio alla contrarietà sul Mes da parte di Meloni e Salvini e dei loro rispettivi partiti, ha finito per mostrare palesemente in tutta la sua ampiezza lo spessore di una condizione di vassallaggio politico tra l’attuale ruolo di FI e la destra meloniana.

Così non solo non è valso a salvare la faccia del partito di cui oggi Tajani è il leader, giocandosi, d’un colpo, la fedeltà e la stima di cui godeva nella concorde attuazione degli obiettivi delle politiche europee, agendo secondo le direttrici espresse dal Ppe.

Ma quella fuga dall’aula della camera, molto più assimilabile ad una fuga di responsabilità a votare dentro un quadro di valori condivisi per trent’anni da Berlusconi, anche se sul Mes non aveva mai mostrato una grande affezione, ha finito per recidere, a mio modo di vedere, in modo irreversibile il legame di fiducia e di affidabilità verso FI, su cui gli altri paesi contavano e della cui vocazione europeista nessuno avrebbe mai dubitato.

Seppur nessuno può negare che già da tempo si cogliessero forti segnali anti europeisti, nelle dichiarazioni dei dirigenti delle due destre, dominate da plateali impulsi anti-Eu: accentuati, con l’avvio di questa legislatura, a seguito dell’insediamento del governo Meloni.

Eppure, nell’iniziale stop and go con cui là premier ha inteso affrontare le diverse e spinose questioni comunitarie, altalenando proclami i e mani tese, non era apparso inappropriato il ruolo che si era ritagliato Tajani ponendosi come punto di equilibrio circa l’indirizzo dell’esecutivo nei rapporti con l’Ue, per rassicurare sulla sostanziale immutabilità della politica europea del governo, pur nella dissonanza, talvolta plateale, di toni propagandistici ad opera delle due destra sovraniste.

Che appunto non spaventavano più di tanto, perché quelle digressioni sembravano più indirizzate ad uso interno che comunitario.

A escludere ogni ipotesi di inverosimiglianza, quelle  rassicurazioni di Tajani, trovavano sostegno nelle perduranti promesse dello stesso ministro dell’economia, Giorgetti, che, a sua volta, non mancava di rassicurare che alla fine il Mes sarebbe stato approvato, pur se non era difficile scorgere qualche sottile ricatto sul tempo e sull’iter procedurale in vista di possibili ammorbidenti della linea più austera pretesa dalla Germania, e in una visione più duttile dalla Francia.

Linea adesiva al Mes ribadita, con un ambiguo dissenso, da Giorgetti, in una intervista sulle pagine de Il Giornale, dopo la sciagurata votazione in parlamento.

Dichiarazioni che non hanno mancato di provocare dai banchi dell’opposizione un coro di richieste di dimissioni sulla palese contraddizione, all’interno del governo, su uno strumento comunitario così importante, su cui peraltro, in qualità di ministro dell’economia, ne rassicurava sull’esito finale.

In realtà sul Patto di stabilità il governo non ha toccato palla, anticipato dall’accordo a due tra Scholz e Macron, con cui si è riportata, seppur aggiornata e corretta, la linea dura del rapporto Pil – Debito pubblico, recepito dagli altri partner, con la prevedibile conseguenza di un futuro assai fosco per la tenuta del nostro sistema economico.

A questo punto dire che hanno combinato un disastro è poca cosa.

L’aver l’Italia perso credibilità, come paese, nel consesso europeo per un così disinvolto atteggiamento anodino ci porterà ad una preoccupante emarginazione nel quadro delle scelte cruciali e nella promozione di una nuovo profilo identitario europeo, più attento alle tutele e agli obiettivi di un Umanesimo equo e solidale, secondo un modello organizzativo e ordinamentale più idoneo a realizzare le condizioni per promuovere ed affermare la dignità di ogni persona.

Di certo l’autorevolezza non è una qualità che ci si può inventare, se uno non ce l’ha!

Con Draghi non sarebbe successo, mentre oggi l’Italia si trova all’angolo assieme ad Orban (la Polonia per fortuna è riuscita a divincolarsi dall’asfissia della destra dispotica di Kaczynski, con le recenti elezioni nazionali) anch’egli sotto stretta osservazione per la sequela di riforme che hanno stravolto l’equilibrio dei poteri costituzionali e lo stato di diritto di quel paese.

Insomma, una compagnia non certo rassicurante. 

La vicenda, alla luce della sempre più affermata teoria della società liquida, di Zygmunt Bauman, dove i mutamenti di opinione sono oramai talmente rapidi che spesso non si fa a tempo a coglierne l’integrale portata, pone ora nuove questioni nella concreta ipotesi di quello che c’è da attendersi nel rimescolamento di nuovi flussi elettorali che si aprono con riguardo alle prossime elezioni europee di giugno.

La riflessione tocca soprattutto l’evidente ulteriore ridimensionamento del ruolo e della funzione di FI, finora insostituibile riferimento politico nel raccordo con gli obiettivi e le strategie sugli assetti istituzionali della Ue, delineati dal Ppe, per la sua posizione di baricentro politico nelle mediazioni istituzionali dell’Unione europea.

Così, se a Tajani, fino a qualche giorno fa, gli bastava atteggiarsi a “punto di equilibrio della politica italiana”. Dopo questa inusitata svolta, in direzione di una completa assimilazione  organico-funzionale nelle file del blocco delle destre sovraniste e populiste, diviene quasi blasfemo per lo stesso e per Forza Italia continuare a ritenersi punto di equilibrio di questa maggioranza.

C’è insomma davanti a noi uno scenario inusitato che apre, in una visione da “nuova frontiera”, un inedito spazio al centro, soprattutto per quelle forze politiche che, in un quadro di aderente rispetto degli assi portanti della nostra Carta Costituzionale e di convinto sentimento del suo spirito antifascista ed antitotalitario, sapranno mostrare affidabilità e solida comunanza negli obiettivi e nella chiara prospettiva di un’Europa meno conflittuale e più versata su orizzonti di prosperità sostenibile, di convivenza pacifica, di solidarietà e di autonomia di azione politica nel concerto internazionale, pur nel rispetto paritario delle alleanze in difesa delle libertà e della democrazia.

Lo scenario, per certi versi inatteso e inedito, ci impone una profonda rimodulazione del processo di ricomposizione dell’area cattolico democratica e popolare.

Mentre la riaggregazione delle diverse componenti democristiane, a questo punto, non ha più alibi per trascinarsi ininterrottamente in discussioni inconcludenti,appare auspicabile che prima possibile, si ricomponga attraverso una concordata assimilazione nella rinata DC, un primo agglomerato della nuova formazione nell’intento di tradursi,nella ritrovata unità e nel quadro di un più ampio pluralismo, in un virtuoso itinerario volto a contestualizzarsi identitariamente, nella prospettiva di una nuova frontiera che attui, in aderenza con la visione di un Umanesimo solidale ed equo dei padri fondatori, un’Europa dei popoli e non espressione del turbo capitalismo e della tecnocrazia, ponendo all’orizzonte, se del caso a breve, un Congresso straordinario, con l’auspicio che sia accantonata definitivamente ogni pulsione divisiva. 

Ma è soprattutto l’obiettivo principale che dovrà dominare il percorso elettorale europeo, del quale restano utili pochi mesi, a dover trovare la giusta strada nel quadro di una concordata e lungimirante strutturazione di una “coalizione di centro” attraverso il coinvolgimento delle forze liberaldemocratiche, riformiste e azioniste, al di fuori da logiche di contiguità, sia con le destre sovraniste, sia con la sinistra massimalista e radicale della Schlein e il populismo qualunquista e anti europeo di Conte e del suo movimento.

In fondo basterebbe guardare al modello polacco con cui Donald Tusk ha costruito la sua coalizione di centro, moderata ed europeista, come appaiono connotarsi, anche nel quadrante parlamentare europeo le diverse affiliazioni identitarie alle diverse famiglie da parte delle singole forze, con cui oggi, da premier, governa il paese: idea vincente che gli ha consentito di ridimensionare l’egemonia del partito di destra, Diritto e Giustizia(PiS) di Kaczynski e Mazowiecki, che, pur rimanendo il partito più votato, non è riuscito a ricomporre una nuova maggioranza, perdendo la titolarità dell’esecutivo dopo otto anni ininterrotti.

Perché il “miracolo” che è riuscito a fare Donald Tusk, nella sua Polonia sfigurata da un governo autocratico, sodale della Meloni, che con una sequela di normative ne aveva eroso lo stato di diritto di quel paese, non possiamo farlo anche noi?