Terzo mandato dei sindaci, perché dico no.

La politica alta, quella davvero preoccupata per il forte astensionismo degli italiani, non deve cedere a interessi di parte. Per “far politica” non è necessario avere un incarico pubblico retribuito.

L’elezione diretta del sindaco, che prima era scelto fra i consiglieri comunali, fu introdotta nel 1993. Fu, questa, una modifica che portò stabilità di governo nei Comuni e allo stesso tempo valorizzò una nuova classe dirigente di amministratori, forti di una legittimazione popolare e con grande efficacia decisionale.

Venne però posto, e giustamente, il limite dei due mandati consecutivi (che all’inizio erano di quattro anni ciascuno, poi portati a cinque) per equilibrare il rapporto fra potere e consenso.

A distanza di un trentennio, i sindaci sono il vero punto di riferimento per la cittadinanza. Ciò anche a fronte della scomparsa o indebolimento di altri livelli istituzionali (circoscrizioni, Comunità Montane e Province). E davanti a una forte disaffezione della gente comune nei confronti dei partiti politici.

Con il tempo sono stati introdotte alcuni aggiustamenti per aiutare i territori più in difficoltà. Il limite dei mandati fu aumentato a tre solo per i piccoli Comuni (3.000 abitanti, poi 5.000): cioè dove, a fronte dello spopolamento e di una minima indennità di carica (non sufficiente a svolgere il ruolo a tempo pieno), si stava dimostrando davvero difficile riuscire a trovare candidati, e di questo ne ho anche esperienza personale.

Di recente, su iniziativa bipartisan di Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani), la Legge di Bilancio 2022 ha previsto un progressivo incremento dei compensi di tutti i sindaci italiani. Tali indennità sono state legate, in relazione alla popolazione del proprio Comune, alla retribuzione dei presidenti di Regione. Si è dunque arrivati a un sostanziale raddoppio della cifra, adeguandola alle grandi responsabilità del ruolo.

Da notare che anche i presidenti delle Regioni hanno, giustamente, il limite dei due mandati (anche se alcuni – tutti ricordiamo il caso lombardo di Formigoni – sono riusciti a introdurre modifiche ad personam).

Ciò premesso non bisogna dimenticare che in Italia ogni potere è sempre soggetto al giusto principio del bilanciamento. In altre parole: quando un potere esecutivo è eletto con mandato popolare forte e diretto, allora è necessario e comprensibile un limite temporale. A maggior ragione se, come nel caso dei sindaci italiani, i livelli delle indennità sono stati, in pochi anni, aumentati in modo così forte.

Di recente però si assiste a un susseguirsi di sindaci, soprattutto di grandi città, e presidenti di Regioni che chiedono di eliminare qualsiasi vincolo temporale di mandato o di aumentare il limite da due a tre o forse pure a quattro mandati.

Giusto chiedersi il motivo di tali richieste da parte di chi ricopre una carica pubblica ormai da molti anni e in prossimità di doverla lasciare. Spesso – dobbiamo riconoscerlo – le giustificazioni sono molto generiche e afferenti più alla sfera privata del singolo che a un dirimente beneficio per la comunità.

Ma la vera motivazione, che il mondo politico cerca di nascondere, è palese: sta nella diminuzione del numero dei parlamentari che implica un sostanziale blocco di molti, legittimi, percorsi di crescita dei tanti, capaci, amministratori locali (sindaci, consiglieri e assessori regionali). A fronte di pochi posti in Parlamento si cerca dunque di aumentare la durata dei mandati nei rami più bassi, ma non meno rilevanti, delle istituzioni. Ecco il vero motivo che muove quel tipo di richiesta.

Ma la politica alta, quella davvero preoccupata per il forte astensionismo degli italiani e per la tenuta delle istituzioni, non deve cedere a interessi di parte. Alla giusta domanda su come non disperdere un patrimonio di esperienza amministrativa e conoscenza del territorio si deve rispondere in modo diverso. Trattenere forzatamente in loco l’esperienza del potere esecutivo locale, finisce non per valorizzarlo ma per spegnerlo con il rischio di difendere rendite di posizioni e di fermare il giusto ricambio. Si dovrebbe sempre ricordare che per “far politica” non è necessario avere un incarico pubblico retribuito. Il politico è ancora più libero e aperto al bene comune quando si sostiene col proprio lavoro e, con dispiacere, lo mette da parte per dedicarsi temporaneamente, se gli elettori lo vorranno, alla gestione della cosa pubblica.