Le speranze alla fine della Prima Repubblica
All’indomani della crisi della Prima Repubblica, si aprì un dibattito serrato tra coloro che, provenendo dall’esperienza della Democrazia Cristiana, cercavano una nuova collocazione politica. La domanda era radicale: costruire un “centro” autonomo, distinto e competitivo rispetto alla sinistra, oppure aderire alla logica bipolare che andava affermandosi, prendendo parte al centrosinistra?
Io, lo confesso, aderii con convinzione alla seconda ipotesi. Credevo – e in parte credo ancora – nella forza della storia e delle idee che avevano ispirato la costruzione democratica del Paese nel secondo dopoguerra. Una democrazia fondata sull’esclusione delle culture politiche che avevano segnato il Novecento totalitario: comunismo e fascismo. In quella logica, appariva naturale – e necessaria – la costruzione di un’alleanza riformista tra le forze democratiche e i post-comunisti, con l’obiettivo di accompagnarne una definitiva evoluzione in chiave socialdemocratica. Al contempo, si poteva auspicare la nascita di un polo conservatore moderno, non nostalgico, anzi estraneo all’eredità del fascismo.
La dialettica democratica si è radicalizzata
Purtroppo la storia ha preso un’altra strada. La dialettica tra due poli “orientati al centro” si è rivelata col tempo una pia illusione. Anziché un confronto maturo tra riformismo democratico e conservatorismo di tipo europeo, abbiamo assistito a una radicalizzazione del quadro politico, in cui è difficile oggi scorgere veri interlocutori moderati, a sinistra come a destra. Non è certo il povero Sbarra, per quanto animato da buone intenzioni, a incarnare una scommessa di emanipazione della destra dai suoi storici limiti, nonché dalla sue persistenti inclinazioni illiberali.
Nel frattempo, il centrosinistra ha visto indebolirsi la propria vicazione riformista, sicché il Partito Democratico appare incapace di riconnettersi con le culture politiche che ne avevano giustificato la nascita.
Ricominciare dal basso, con spirito di servizio
Eppure una speranza esiste. Ma non si trova nei giochi di palazzo o nelle ricomposizioni verticistiche. L’unica via realistica passa per la destrutturazione dei due poli, e la ricomposizione – paziente ma decisa – di una nuova area democratica, popolare e riformatrice. Una costellazione composta da moderati sparsi, ex popolari, liberaldemocratici, ex dirigenti del PD e realtà associative e produttive dell’Italia “minore”, quella che non fa rumore ma tiene in piedi il Paese.
Queste energie possono convergere solo se si ha il coraggio di anteporre il bene comune alle convenienze individuali. È qui che si misura la vera “generosità della politica”: la capacità di rinunciare a un tornaconto immediato per contribuire alla costruzione di un’alternativa seria, ispirata alla nostra migliore tradizione democratica e costituzionale.
Dare battaglia, non cedere alla rassegnazione
Tutte le analisi demoscopiche più attendibili convergono: questa area potenziale supera il 20%. E allora perché nessuno riesce a riaprire i giochi per dare voce a questo sentire diffuso eppure privo di rappresentanza?
È su questa prospettiva che vale la pena lavorare o, come si dice, dare battaglia. Non per inseguire uno “strapuntino” personale – che, se avessimo voluto, alcuni di noi avrebbero ancora potuto ottenere – ma per consegnare alla politica italiana la chance di una “nuova via”. Una speranza concreta per chi non si riconosce negli estremismi e non accetta di chiudersi bella rassegnazione.
Gianluca Susta, già parlamentare europeo e senatore