All’Istituto Sturzo si è organizzato un interessante e ricco dibattito sul patrimonio politico, sociale, culturale ed istituzionale di Franco Marini, uno dei leader – con Carlo Donat-Cattin e Guido Bodrato – più rappresentativi ed autorevoli del cattolicesimo sociale italiano. Di Marini sappiamo molte cose ma il lavoro di indagine e di ricostruzione del suo magistero è solo all’inizio, come ovvio. E sarà proprio compito della Fondazione dedicata a Marini dalla Cisl e guidata dall’ex segretario generale Luigi Sbarra a svolgere il lavoro principale in questa direzione. Oltre all’azione concreta di chi proviene da quella tradizione proseguire una presenza e declinare una iniziativa nell’attuale cittadella politica italiana. Mi riferisco, nello specifico, a coloro che provengono dalla cultura, dalla tradizione, dal pensiero e dalla prassi del cattolicesimo sociale, e che sentono la necessità e l’urgenza di dare voce e gambe a quella “sinistra sociale” di ispirazione cristiana che continua ad avere una straordinaria attualità e modernità anche nella società contemporanea.
Ma, per tornare al magistero di Marini, non dobbiamo cadere nella tentazione di piegare il suo pensiero e la sua testimonianza proseguita e declinata per molti decenni nel sindacato, nella politica e nelle istituzioni alla situazione politica contingente ed attuale. Sarebbe un’operazione intellettualmente disonesta oltre ad essere profondamente ipocrita. Eppure proprio in questi giorni abbiamo ascoltato diversi esponenti politici e sindacali quello che avrebbe o quello che non avrebbe fatto Marini. Appunto, un’operazione politica intellettualmente disonesta.
Ora, per non farla lunga, credo sia sufficiente ricordare almeno tre aspetti decisivi ed essenziali dell’azione concreta di Marini per non cadere in ridicole e grottesche ricostruzioni storiche e politiche.
Innanzitutto, sotto il profilo sindacale, Marini è sempre stato coerente con la linea tradizionale dello storico “sindacato bianco”. E quindi, nessun radicalismo, nessun massimalismo, nessun pregiudizio ideologico e culturale verso chicchessia. E, soprattutto, priorità al dialogo e al confronto per raggiungere risultati concreti e tangibili per migliorare le condizioni dei lavoratori da un lato e per costruire una miglior giustizia sociale dall’altro.
In secondo luogo, e sotto il versante politico, Marini ha rappresentato nei partiti in cui ha militato – dalla Dc al Ppi, dalla Margherita al Pd – la “sinistra sociale” di ispirazione cristiana. Ovvero la cultura e la tradizione del cattolicesimo sociale italiano. E non ha mai rinunciato a questa sua specificità. Insomma, Marini non è mai stato un gregario, una comparsa o, peggio ancora, un banale ornamento nei rispettivi partiti. Perché nei partiti ha senso esserci se non si rinuncia alla propria personalità, alla propria cultura e alla propria specificità culturale e sociale. E, su questo fronte, Marini è sempre stato coerente e coraggioso, come lo è sempre stato il suo unico e vero mentore politico, Carlo Donat-Cattin.
In ultimo, ma non per ordine di importanza, Marini non è mai stato manovrabile. Amava andare controcorrente perché rispondeva alla sua coscienza e alla sua cultura e non è mai stato un estimatore del “politicamente corretto”. Come ovvio, non amava i salotti aristocratici e alto borghesi che dettavano l’agenda alla politica e ai politici compiacenti e che erano, a loro volta, adulatori dei pifferai della comunicazione progressista e cosiddetta adulta. Ma per andare controcorrente devi essere coraggioso e coerente, nonchè determinato. Detto con altre parole, devi avere e testimoniare concretamente una personalità politica.
Per queste ragioni, semplici ma essenziali, la “lezione” politica, culturale, sociale e valoriale di Franco Marini non può essere piegata alle circostanze del momento. E chi pensa di compiere questa operazione deve sapere che ci sarà sempre qualcuno che lo smaschera e lo ridicolizza di fronte alla pubblica opinione di referimento. Non per convenienza ma per convinzione, onestà, coerenza e trasparenza.