Un libro prezioso a ottant’anni dall’eccidio delle Fosse ardeatine

Finalmente un lavoro rigoroso di due valenti storici (M. Avigliano-M. Palmieri, Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine, Einaudi) sulla strage efferata di cui si macchiarono le forze di occupazione tedesche.

Il 24 marzo sono ottant’anni dalla strage delle Fosse Ardeatine. È difficile, forse impossibile, trovare uno studio o un libro sul massacro delle Fosse Ardeatine di cui si rendono responsabili i tedeschi – le SS di Herbert Kappler, Karl Hass, Erich Priebke, spietati criminali aguzzini – che non segua teoremi o ricostruzioni o montature succedutesi nel tempo, fin dai giorni immediatamente seguenti l’eccidio. Soprattutto è impossibile trovare uno storico che si interessi delle 335 vittime. Per i tre ufficiali delle SS sunnominati, le stesse vicende della cattura, della detenzione e, in un caso, dell’uscita dalla detenzione presentano regolarmente qualche lato apparentemente opaco, inspiegato, poco convincente. 

Si pensi alla grave rottura del patto di consultazione preventiva dei comunisti con le altre forze rappresentate nel CLN (nel cui comitato militare siedono Giuseppe Spataro per la DC è Giorgio Amendola per il PCI); oppure al sospetto di un preventivo accordo di massima tra Kappler e i comunisti per non mettere nel mirino una unità combattente operativa efficiente (vittime dell’attentato di via Rosella furono degli anziani ausiliari altoatesini: soggetti di serie B quanto a efficienza bellica); l’atteggiamento in quei frangenti altalenante e ambiguo di Giorgio Amendola, uno dei giovani capi militari comunisti, soprattutto nei momenti successivi all’attentato; l’ideazione tecnica dell’attentato da parte non di una figura di vertice, ma di un militante che aveva la ventura di abitare nei pressi del luogo dell’esplosione dell’ordigno; soprattutto, la circostanza che il 24 marzo precede di due-tre giorni il rientro in Italia di Palmiro Togliatti: in un certo senso, la situazione tragica creatasi con l’attentato e la successiva strage è il benvenuto riservato al capo (da notare che il coordinamento militare viene immediatamente dichiarato decaduto e lo stesso Comitato centrale del CLN rischia la rottura; per fortuna, Togliatti arriva appena in tempo – il 27 marzo -, sconfessa nella sostanza i suoi e rimette insieme i cocci del vaso infranto). 

Invece, con il nuovo libro di due valenti storici,Mario Avagliano e Marco Palmieri (Le vite spezzate delle Fosse Ardeatine, Einaudi) anche le vittime salgono agli onori della storia.

Un passo indietro. All’epoca, nel 1944, Giulio Einaudi ha da poco iniziato la sua attività di editore. Per la selezione dei titoli apparsi nell’editoria mondiale e da portare a stampa in Italia si avvale, nelle materie società ed economia, della consulenza di due giovani amici cattolici: Franco Rodano, il leader della Sinistra Cristiana fortemente legato a Palmiro Togliatti, e Sergio Paronetto (quest’ultimo amico anche di suo padre, il grande economista Luigi, di suo fratello, l’ingegnere siderurgico Roberto, che fa il commissario-presidente dell’IRI per le province liberate dell’Italia centrosettentrionale, e di un suo cugino di secondo grado, l’ingegnere dell’IRI Agostino Rocca che fa il patron di industrie importanti come la Finsider, la Dalmine, la SIAC e l’Ansaldo). 

Gli autori Avagliano e Palmieri hanno fatto una operazione di concezione semplice, giusta, necessaria; finora – guarda caso – trascurata: la raccolta delle biografie dei 335 caduti. Dalla lettura di queste si sprigionano una pluralità di significati e profili che fissano in qualche modo il significato di quella che fu la terribile denegazione dell’umanità perpetrata dai militari tedeschi, in preda alla barbarie nazista, con l’aiuto dei loro scherani italiani fedeli al regime di Salò. Gli autori pongono la questione di chi e cosa fosse l’Italia contro la quale si muove la distruttrice ex disumana macchina nazista. Viene ricostruito un complesso mosaico che però fornisce un’identità sufficientemente precisa a un gruppo: non si tratta di partigiani (soltanto), di ebrei  (soltanto), di oppositori del regime (soltanto), di ricchi  (soltanto) o di poveri (soltanto), di anziani o di giovani  (soltanto): è uno spaccato della popolazione; hanno in comune il fatto di formare l’Italia reale, comprese quelle poche unità di stranieri che vengono aggregati ai votati al massacro.

Il metodo con cui sono state messe insieme le biografie costituisce motivo di peculiare interesse: c’è naturalmente la ricostruzione personale di tipo narrativo; ma soprattutto c’è la spremitura di ogni possibile ragguaglio biografico proveniente dagli archivi pubblici: ad esempio, anche dalla lettura del casellario giudiziario e degli atti giudiziari. Nulla dunque che possa essere legato al mito. Nella letteratura storiografica legata agli eventi formativi della epopea antifascista si trovano spesso ricostruzioni che, pur non potendo negare loro validità in assoluto, hanno nascosto dietro appunto al mito molteplici aspetti nello stesso filone, ma distinti: ad esempio, l’azione militare anti-tedesca; l’azione anti-regime; l’azione di ripristino della libertà e della democrazia. L’uso apodittico e pervasivo della categoria dell’antifascismo può in più di un caso essere stato in tutti questi decenni ingannevole. Tale genere di scelta di precisazione produce effetti storiografici anche notevoli: per dire, chi ha mai messo in primo piano che tra i trucidati ci furono anche dei fascisti (ex)? Dei militari, dei poliziotti, dei carabinieri? Degli adolescenti? La categoria dell’antifascismo – forse effetto, più che causa, della strage delle Fosse Ardeatine – ha offuscato la speciale qualità plurale delle vittime, unificandola sotto un protocollo unitario eccessivamente sommario: che è andato a ricoprire anche le vittime quindicenni o i passanti sorpresi dalle parti di via Rasella subito dopo l’attentato. Addirittura, da parte degli illustri presentatori del libro a Palazzo di Firenze, sede della Società Nazionale Dante Alighieri, sono stati avanzati dubbi circa la validità del (complesso) concetto di guerra civile in Italia dal 1943 al 1945. Ora, con l’opera di Avagliano e Palmieri possiamo inforcare gli occhiali giusti per leggere la storia, quelli agostiniani del Vero e quelli della verità-realtà delle vittime (che, per non essere primariamente parte di una formazione in campo, sono tanto più nostri fratelli; e che, nella lettura del libro, avvertiamo come tali). 

Allora, quello che affascina nell’opera di Avagliano e Palmieri è un triplice elemento: la ricostruzione storiografica, che si uniforma alla freddezza solo apparente della ricerca negli archivi, è un dato da salutare positivamente (l’esame del libro riserva continuamente al lettore momenti di autentica commozione; il rigore del metodo non esclude affatto l’emotività di fronte alla restituzione degli avvenimenti); quindi, la fuoriuscita definitiva dall’ideologia – ideologia d’antan -, da salutare altrettanto positivamente; infine, il coraggio di fare la scelta di sottolineare l’importanza delle biografie, sia pure quando i coprotagonisti sono tanti e sono persone normali, senza un ruolo volontario decisivo. 

Non è dunque il racconto della realtà storica a dover inseguire il pensiero dello storico, ma è quest’ultimo a doversi adattare quanto più possibile alla molteplicità pluralistica delle risultanze della ricerca. Più molteplicità irriducibile di quando si fa storia biografica di persone invece che storia di idee, è difficile trovare; ed è ancora più difficile averne ragione elaborando il materiale trovato. Il libro, esemplare sotto il profilo metodologico, è augurabile che sia seguito da tanti altri saggi di storia in cui abbondino le biografie dei tanti coprotagonisti. Sarà così che riusciremo meglio a comprendere – e a utilizzare positivamente – fenomeni storici che ci hanno coinvolto e riguardato come collettività; ma che ci scoraggiano perché i protagonisti sono tanti e sconosciuti. Personalmente amerei che ci si esercitasse di più e meglio con un evento complesso come la ricostruzione postbellica italiana. Dovremo fare uno sforzo. Ma alla fine potremo sapere a chi dobbiamo essere riconoscenti.