L’autore sottolinea come la proposta di Morin sia acuta e provocatoria al tempo stesso. E indica a riprova questa citazione: «Promuoviamo anzitutto una politica che unisca globalizzazione e de-globalizzazione, crescita e decrescita, sviluppo e inviluppo. Questi termini sono antinomici solo in una logica binaria che li rinchiude in alternative mutilanti».
Luca M. Possati
«L’umanesimo rigenerato rifiuta l’umanesimo della quasi divinizzazione dell’uomo, teso alla conquista e al dominio della natura. Riconosce la complessità umana, fatta di contraddizioni. L’umanesimo rigenerato riconosce la nostra animalità e il nostro legame ombelicale con la natura, ma riconosce anche la nostra specificità spirituale e culturale. Riconosce la nostra fragilità, la nostra instabilità, i nostri deliri, l’ignominia delle uccisioni, delle torture, dello schiavismo, le lucidità e gli accecamenti del pensiero, la sublimità dei capolavori di tutte le arti, le opere prodigiose della tecnica e le distruzioni operate dai mezzi di questa stessa tecnica».
È con l’appello a un nuovo umanesimo capace di unire ragione e passione, conscio dell’assurdità di una ragione pura o di una verità assolutizzante, che Edgar Morin ha deciso di rispondere alla sfida della pandemia globale. Nella crisi del Covid il filosofo francese indica una grande opportunità che non può ridursi allo slogan dell’ennesima “rivoluzione” o di un precostruito “progetto”, nozioni troppo statiche per rendere il senso della trasformazione necessaria. Nel libro Cambiamo strada (2020), Morin parla invece di una “nuova via” animata dalla speranza del rinnovamento. È il suo più grande insegnamento: la complessità non deve farci paura, ma spingere a ridefinire il nostro pensiero e le nostre vite in maniera creativa, nuova, coraggiosa.
Secondo Morin, la grande lezione del coronavirus è quella di spingerci a riflettere sulla nostra esistenza e sul destino della comunità umana come mai fatto prima. Il covid è una grande esperienza collettiva che mette in crisi l’individualismo e l’edonismo capitalista della seconda metà del Novecento. L’uomo si è improvvisamente scoperto un essere fragile, che non domina affatto il pianeta e che, anzi, si scopre sempre più dipendente dai sottili equilibri della biosfera. «La nostra fragilità era stata dimenticata, la nostra precarietà occultata. Il mito occidentale dell’uomo il cui destino è diventare “padrone e possessore della Natura” è crollato di fronte a un virus».
Tra i vari aspetti sottolineati da Morin ce n’è uno che emerge con particolare nettezza e che spinge all’approfondimento: il fallimento dello stato. «La crisi ha fatto riemergere il problema di fondo di un’amministrazione statale iperburocratizzata e sottomessa ai suoi vertici a pressioni e interessi che bloccano ogni riforma», un paradosso per il pensiero neoliberista che invece ha fatto della lotta alla burocrazia e al centralismo uno dei suoi principali vessilli — almeno a parole.
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