La progressiva riduzione della partecipazione al voto può ragionevolmente creare un problema di legittimazione del risultato per chi, di volta in volta, vince le diverse competizioni elettorali? In termini formali ovviamente no. Ma in termini politici si impone una riflessione se chi prevale nelle elezioni (soprattutto nelle competizioni a turno unico) non può dire di rappresentare la maggioranza dei cittadini, ma a volte solo una esigua parte di elettori rispetto all’intera platea degli aventi diritto di voto. Infatti, in presenza di percentuali di partecipazione al voto inferiori al cinquanta per cento, il risultato ottenuto da ciascuna lista indica un livello di consenso realmente presente nel tessuto sociale che è pari alla metà della percentuale di voti ottenuti o a volte anche meno. In altre parole una lista che raggiunga una pur lusinghiera percentuale di voti (ad esempio del 28-30%) sta in effetti rappresentando un percentuale dell’intera cittadinanza che è molto inferiore a quel numero.
Nelle recenti competizioni elettorali regionali del febbraio 2023, il caso limite è stato quello del Lazio, dove la percentuale di votanti ha raggiunto il minimo storico del 37,2%. In casi di questo tipo, una lista che raggiunge il 30% è in effetti stata votata dall’11% degli elettori. Lo stesso Presidente della Regione Lazio, legittimamente eletto lo scorso febbraio con il 53,9% dei voti, è stato effettivamente votato da non più del 20% dei cittadini del Lazio. Anche nelle elezioni politiche del settembre 2022 il “primo partito” è stato quello dei non votanti (circa 20 milioni); si consideri inoltre che il centrodestra vince con 12,6 milioni di voti, mentre tutte le altre forze politiche (oggi all’opposizione) non vincono perché divise tra loro, ma raccolgono complessivamente oltre 16,4 milioni di voti. Il paradosso espresso da questi numeri è che oltre tre quarti degli elettori non trova rappresentazione nella maggioranza che governa attualmente il Paese.
Il ragionamento si potrebbe concludere dicendo semplicemente che gli assenti hanno sempre torto. E in parte è così, perché poi i governi e le amministrazioni elette operano e decidono in nome e per conto di tutti. Ma oltre questo non si può sottovalutare che la bassa affluenza al voto e un simile meccanismo elettorale non creano – tra le altre cose – quell’afflato tra elettori ed eletti che poi diventa anche vettore delle scelte politiche di amministrazioni e governi. Una condizione dalla quale derivano poi conflitti e sfiducia generalizzata nelle istituzioni e in chi le rappresenta. Con il progressivo calo della partecipazione dei cittadini alle scelte delle amministrazioni manca sempre più quel coinvolgimento popolare che crea un senso civico diffuso e con esso anche le condizioni per amministrare al meglio una comunità organizzata, specialmente quando si tratta di grandi agglomerati urbani.
Probabilmente un errore fatto in modo sistematico nel corso degli anni è stato anche quello di definire il voto sempre e soltanto come un diritto. La nostra Costituzione invece, all’articolo 48, definisce il voto come “personale ed eguale, libero e segreto” aggiungendo che “il suo esercizio è un dovere civico”. I costituenti hanno voluto sottolineare il concetto di “dovere” aggettivandolo come “civico” per evitare che il legislatore ordinario potesse in seguito prevedere delle sanzioni a carico di chi non vota. Oggi è più che mai necessario recuperare quel concetto di “dovere civico” per ristabilire un rapporto fiduciario meno effimero e più duraturo tra cittadini e rappresentanti eletti nelle istituzioni; ne deriverebbe un vantaggio complessivo per tutti, grazie alla crescita di un comune senso civico di appartenenza ad una comunità in grado di confrontarsi in modo costruttivo intorno a problemi e possibili soluzioni.
Sono riflessioni che dovrebbero guidare ogni proposta di modifica dei sistemi elettorali a livello sia nazionale che locale. In questo senso va spezzata una lancia a favore dei sistemi elettorali che prevedono un doppio turno e che hanno la caratteristica di riuscire a tenere insieme i vantaggi della logica proporzionalistica che tutela le diversità politiche con l’esigenza di stabilità di amministrazioni e governi. Il modello elettorale dei comuni, anche detto del “sindaco d’Italia”, consente infatti di salvaguardare ogni singola forza politica nel primo turno, individuando con nettezza nel secondo turno di ballottaggio chi dovrà guidare l’amministrazione o il governo; è un sistema inclusivo, che può risultare incentivante per la partecipazione al voto consentendo ad ognuno di fare una scelta che tenga insieme la voglia di identità con la necessità di sintesi. Ritrovare una sana partecipazione significherebbe anche che chi è chiamato a governare può rappresentare realmente la maggioranza dei cittadini e non solo una parte dei pochi che si recano a votare. Le leggi elettorali devono essere rivolte agli elettori con l’obiettivo di riavvicinarli alla politica e al voto. Altre finalità possono interessare solo gli “addetti ai lavori” con grande nocumento per la qualità della nostra democrazia.