La disinvolta liquidazione delle ideologie, con il cedimento alla funzione apparentemente salvifica di un capitalismo senza più freni, ha messo in ginocchio la politica. Ora la società è più debole perché più frammentata e diseguale: fatica a ritrovare la forza della solidarietà e della coesione come motore del progresso civile.
Cresce nelle nostre città e nei piccoli comuni un certo malessere sociale, economico, politico, culturale. Il tutto mentre si avvicina la tornata elettorale amministrativa del prossimo autunno che coinvolgerà città importanti, tra le quali Roma, ed una miriade di piccoli comuni chiamati a rinnovare sindaci e consigli comunali.
Una sorta di prova generale che ha già scatenato partiti e movimenti, lobby ed interessi, gruppi di potere conditi dalla solita smania di occupare posti importanti per fini interessati. Eppure, nessuno riflette su un tema drammatico che coinvolge dal più piccolo comune agli agglomerati urbani più popolosi: la lacerazione del tessuto sociale.
Su questo versante, il quadro è davvero preoccupante. È profondamente cambiato il modello di convivenza umana (artefice anche la pandemia, ma non solo), modelli diversi avanzano sull’onda di un individualismo esasperato, dell’utile personale che rinnega qualsiasi propensione al solidarismo.
Il problema è certamente soprattutto sociologico, ma non solo, come riflesso di fenomeni verificatisi negli ultimi decenni: una massiccia presenza di immigrati insieme al divario sempre più marcato tra poveri e ricchi, costituiscono il problema irrisolto di questo nostro tempo.
Ma l’assenza più vistosa in questo quadro desolante è soprattutto quella della politica, che ormai sembra condannata alla semplice amministrazione dell’esistente e non solo per motivi legati ad un’epoca di transizione, ma anche per l’incapacità e l’incompetenza della classe dirigente a tutti i livelli.
Un’incapacità che si manifesta soprattutto nel saper governare i nuovi fenomeni posti da un’immigrazione incontrollata che crea nuove sacche di povertà e di esclusione.
Una questione, quest’ultima, che favorisce la cultura dell’individualismo a danno di quella della solidarietà. Ed allora, come uscire da questa crisi sociale, economica, culturale e politica?
Negli ultimi anni della sua vita, il cardinale Carlo Maria Martini, riprendendo alcune riflessioni di Giuseppe Lazzati, indicava, insieme alle problematiche sopra accennate, anche le possibilità politiche per liberare la società da questa crisi generale dell’uomo.
Occorre ripartire dalla città con la consapevolezza che la semplice ristrutturazione del patrimonio urbano per renderlo più bello ed attraente risulterebbe vana se non si parte dall’assunto lazzatiano di “costruire una città per l’uomo e a misura d’uomo”.
Sulla scia di queste indicazioni non è peregrina una ulteriore riflessione: molti si sono illusi che la liquidazione delle vecchie ideologie e dei valori contrassegnati da un lato dal comunismo e, dall’altro, da posizioni politiche ispirate dal cristianesimo, fossero sufficienti per costruire la società laica (o laicista?), secolarizzata nella quale ai principi dell’etica si sostituissero quelli dell’economia. La realizzazione, in sostanza, di quella che viene definita società radicale, per cui è valido solo quello che mi è utile in termini materiali.
La crisi contemporanea è figlia di questa pseudo cultura politica e la stessa classe dirigente attuale, a tutti i livelli, proviene da questa tendenza sociologica errata. Se non si riparte da queste riflessioni pre-politiche, difficilmente avremo in futuro una nuova classe dirigente competente, preparata ed ispirata da motivazioni etiche.
Ripartire dalla città, dal più piccolo comune come realtà nelle quali si sviluppa la personalità del singolo in funzione del bene comune, significa davvero costruire una città per l’uomo.