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martedì, Febbraio 11, 2025
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Una riforma per la Chiesa cattolica: la fine del confessionalismo.

La domanda è: al di là dell'ombrello chiesastico, l'uomo Gesù Cristo e il cristianesimo hanno ancora qualcosa da dire e soprattutto da dare alle confuse e impaurite persone di oggi?

“Per una frazione di modernità che, a grandi linee, va dal Cinquecento ai nostri giorni, in una parte d’Europa il cristianesimo ha assunto prevalentemente una forma confessionale. Ciò ha suscitato strutture sociali e organizzazioni che amministrano i mezzi di salvezza, consentendo alla religione di fungere da «infrastruttura statale»”. Così Luca Diotallevi (Sociologia, Roma Tre) nell’abstract di “Fine corsa – La crisi del cristianesimo come religione confessionale” (EDB, 2017). E sempre Diotallevi nella prolusione per l’inaugurazione dell’Anno Accademico della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, su «La fine del cristianesimo, religione degli italiani»:  “…Esattamente, cos’è che sta finendo? Finisce l’equazione tra cristianesimo e religione, la riduzione del cristianesimo a solo-religione. Finisce l’epoca della religione di forma confessionale, architrave (anche nella forma estrema della laicità) delle State societies, delle società in forma di Stato. È non è forse questa una buona notizia per chi non abbia smarrito anche solo qualche elementare nozione del magistero sociale della Chiesa, e più ancora del Vangelo in generale?…”.  (Cagliari, 14 Ottobre 2024).

La situazione

Ancor più severamente Don Pierangelo Sequeri, teologo e compositore, su “Avvenire” del 5 Febbraio di quest’anno (“Uscire dalla nevrosi ecclesiogena: raccontiamo la Chiesa com’è”): “… [la Chiesa] dall’esterno ha importato prestiti: spesso troppo spensieratamente apprezzati come valuta pregiata, forme di riconoscimento estemporaneo a sostegno di un’economia sostanzialmente autarchica. Del tesoro della fede non c’è rendita però: e pochissimo scambio. In ogni caso la fede nel riscatto dell’anima dal nichilismo che se la divora senza troppa fatica, e nella destinazione della vita che deve risorgere da qualche parte, per sempre, rimangono in fondo alla lista. Molta morale, poca comunità, zero cultura…”.  La fede? – dice Sequeri – “in fondo alla lista”. Il paesaggio? “Molta morale, poca comunità, zero cultura”.  Sic stantibus rebus.

Dalle domande sulla Chiesa alla Domanda sulla Fede

La domanda non è il gradiente di posizionamento culturale e politico della Chiesa cattolica, né la quotazione di questo o quel documento del magistero, né l’accampare l’acume della DSC, e ancor meno i successi mediatici dei Pontefici. (A Trieste chi è venuto Domenica 7 Luglio è venuto apposta per il Papa, non per la Settimana Sociale; democrazia o autocrazia, politica o impolitica, cosa vuoi lo riguardi…).

Su “Cuore” dei primi Anni Novanta, in pieno protagonismo wojtyliano, assunto da molto mondo cattolico come una sorta di riscatto rispetto a presunte marginalizzazioni, Michele Serra scrisse un articolo che diceva: “Noi non siamo contro il Papa, noi siamo senza Papa”. Dissacrante? Forse. Sicuramente anticipatorio che ogni liaison ha una sua eclisse.

Allora, qual è la domanda che ci serve? La domanda è: al di là dell’ombrello chiesastico, l’uomo Gesù Cristo e il cristianesimo hanno ancora qualcosa da dire e soprattutto da dare alle confuse e impaurite persone di oggi?

Jullien, Guardini, e il cristianesimo come Rivelazione.

In questo senso un bel lavoro di François Jullien uscito nel 2017 per Ponte alle Grazie, “Risorse del cristianesimo”, dice come non mai quello che bisognerebbe saper tradurre. ‘Tradurre’. E non tanto ammansire la domenica. Perché le persone mancano di traduttori, di compagni, non c’è chi fa Virgilio.

Il cristianesimo è ancora – anzi oggi più di sempre, e indipendentemente dal professare un fede – una ineguagliata risorsa. Quindi la risposta è sì, il cristianesimo ha ancora qualcosa di vitale da dare alla gente di oggi. Se prima è però possibile un’altra domanda attorno a “che cosa significa essere vivi” (dice l’ateo Jullien).

È il Natale secondo Romano Guardini: una Rivelazione. Il Nuovo, che la vita non ha più, appare. “Che cosa significa dunque Natale?”, si domanda Guardini. Bisogna prendere congedo da alcune concezioni, perché “sull’essenza del cristianesimo esistono definizioni annacquate e corrotte”.

Bisogna purificare le parole. “Il cristianesimo non è la religione dell’amore del prossimo, dell’interiorità, o della personalità o di quant’altro di questo genere si possa ancora dire. Naturalmente, in tutto ciò v’è qualcosa di esatto, ma come un secondo aspetto, che acquisisce il suo senso solo quando è chiaro invece ciò che viene prima ed è autentico.”.

E quello che viene prima di tutto nel Natale, e che solo e soltanto ne giustifica il celebrarlo, è che “all’umanità succede una Rivelazione vitale, che lei non potrebbe mai creare”. Succede (= realtà) un evento (= avvenimento) che si genera ‘fuori’ da essa. “Viene – dice Guardini – dall’altro lato del confine. Venuto al di qua del confine ora è presso di noi, con noi”.  E questo “in un senso inaudito”. Solo e soltanto questo è il Bambino e il fatto carnale di Natale. Tutto il resto ma proprio tutto, comprese fedi, devozioni, riti, ecc., la “gioia per i doni, l’affetto della famiglia, il rinvigorirsi della luce, la guarigione dall’angustia della vita” riceve Senso solo da questo. Perché l’umanità non può produrre da sola ciò che la fa vivere.