Articolo già pubblicato sull’edizione odierna dell’Osservatore Romano a firma di Andrea Monda
«Chi ha compiti di responsabilità dovrebbe evitare di accostare agli slogan politici i simboli religiosi. Sono episodi di incoscienza religiosa, che rischiano di offendere il sentimento dei credenti e nello stesso tempo di oscurare il principio di laicità, tratto fondamentale dello Stato moderno». Questo passaggio dell’intervento di ieri al Senato del presidente del consiglio Giuseppe Conte (il resto è raccontato nell’articolo di cronaca) tocca un punto cruciale non solo dell’attuale momento politico ma della storia politica italiana. Vale la pena quindi fermarsi e riflettere. Si potrebbe anche liquidare la questione citando il passo del Vangelo di Matteo (6,5-9) in cui il credente è invitato a pregare «nel segreto» e non «agli angoli delle piazze». Ma il tema è molto grande e complesso e merita la massima attenzione e capacità di approfondimento rispetto al tempo che viviamo e al rapporto, che riguarda la politica ma non solo, fra il dire e il fare (anche su questo basterebbe forse citare ancora Matteo 7,21: «Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli»).
Negli ultimi mesi questo quotidiano ha ospitato una lunga serie di interviste che hanno coinvolto intellettuali e studiosi, cattolici e laici, tutti appassionati delle sorti di questo meraviglioso e talvolta incomprensibile paese che è l’Italia e questo tema è inevitabilmente emerso più volte. C’è chi come Massimo Cacciari ha evidenziato criticamente anche come i gesti di esibizione dei simboli religiosi abbiano avuto l’effetto di un aumento del consenso e non la diminuzione, riscontrando in questo dato la prova di un evidente problema educativo. In fondo la domanda riguarda la verità di quel che si dice e il modo in cui la si propone testimoniandola o tradendola nei fatti. E riguarda allo stesso modo quel che ognuno vuol sentirsi dire e credere alimentando false verità. Si tratta di temi sociali ed etici, di difesa della giustizia e della vita, che non possono essere disgiunti e che riguardano tutti, non solo questo o quel partito o esponente politico.
E allora, in ossequio al motto di Spinoza «non ridere non lugere neque detestari sed intelligere» cerchiamo di frenare i nostri primi impulsi e di non deridere, non compiangere né disprezzare ma di comprendere: come si è arrivati a questo? L’educazione è in effetti il punto chiave, un’educazione che forse nel corso dei decenni è stata ridotta a istruzione, a una forma di mera guida e governo “dall’alto”, e questo slittamento di significato ha riguardato sia la politica sia la Chiesa cattolica, entrambe si sono dimenticate che per educare è essenziale come primo passo l’ascoltare. Il popolo non è stato ascoltato. I fattori che hanno causato questo stato di cose sono molteplici e infatti sembra indubbio che — paradossalmente — un posto di rilievo lo ha avuto anche la progressiva emarginazione del “religioso” dalla scena pubblica attraverso il complesso fenomeno che passa sotto il nome di secolarizzazione. In Italia non si è arrivati alla situazione propria della Francia, in cui proprio i simboli religiosi sono stati messi sotto accusa e espulsi anche fisicamente dalla vita pubblica attraverso legislazioni e normative penali, però anche in Italia si è affermato un assetto sociale che ha reso superfluo e superato ogni riferimento alla dimensione religiosa per cui il dominus è oggi il principio economico e tecnologico che inevitabilmente spinge verso un prepotente individualismo inaridendo ogni senso di appartenenza, tanto più se legata alla sfera religiosa vista come un residuo folkloristico di epoche antiche, tendenzialmente “buie” e superstiziose. Il discredito che a livello “alto”, della politica e del mondo culturale e intellettuale, è stato riversato sulla religione ha finito per provocare una reazione quasi istintiva per cui quei simboli religiosi hanno di fatto tradito la loro stessa natura: se infatti “sim-bolo” significa ciò che unisce, oggi assistiamo ad una spaccatura, tra chi li vede con fastidio e avversione e cerca di espungerli dalla vita sociale e chi invece a quei simboli si aggrappa come ad un feticcio dal forte valore identitario che però rischia di tradire il significato che essi rappresentano.
Se non si scioglie questo nodo la crisi politica potrà pure risolversi a livello parlamentare, con un passaggio elettorale o con un nuovo governo, ma la vera crisi, quella che affonda le radici nel vivere quotidiano e nelle esistenze reali degli italiani, non sarà minimamente affrontata.
In questa situazione la Chiesa cattolica, cioè il popolo dei cristiani, può senz’altro giocare un ruolo decisivo. Potrà farlo se innanzitutto avrà il coraggio di fare una profonda autocritica, in particolare per quella mancanza di ascolto già accennata e che è parte essenziale della dimensione sinodale che il Papa con insistenza sta proponendo sin dall’inizio del suo pontificato.
Il cristianesimo in particolare è la religione imperniata sul dogma dell’Incarnazione, cioè di un Dio che diventa uomo rinunciando al suo potere e che non chiede più il sangue degli uomini come nell’antichità ma Lui stesso diventa carne e sangue, pane quotidiano, cibo per la vita di tutti i giorni di ciascun essere umano. L’onnipotenza divina come era intesa prima del cristianesimo viene abbandonata a favore della libertà e la dignità dell’uomo. Per questo il potere viene de-sacralizzato e Dio lascia spazio a Cesare senza confondersi più con esso. Dal Vangelo è scaturita quella forza che ha portato all’affermazione della laicità, che non può però essere ridotta a laicismo, cioè a liquidare snobisticamente in nome di un malinteso razionalismo tutto ciò che riguarda la sfera religiosa anche perché questa rimozione impoverisce l’esperienza umana e fa torto alla sua ricchezza e complessità creando inevitabili reazioni che spesso si spingono agli eccessi opposti del fanatismo irrazionale e alla fine del fondamentalismo.
Su questo sentiero sottile e delicato tra i due rischi opposti si è sempre mossa e deve continuare a farlo con coraggio la Chiesa cattolica e allora anche questa ingarbugliata crisi della politica italiana può (e deve) rivelarsi un’occasione per una severa riflessione sul passato in vista di una urgente ripartenza dalle basi, cioè dall’ascolto del popolo e dei suoi bisogni e quindi dall’educazione, una ripartenza di cui l’Italia ha drammaticamente bisogno.