Il Wall Street Journal rileva in un sondaggio degli ultimi giorni che il Partito Democratico registra il peggior livello di gradimento degli ultimi 35 anni, con appena il 33 % di opinioni favorevoli a fronte di un 63 % di giudizi negativi. È un dato allarmante: i repubblicani vengono considerati più affidabili nella gestione dei principali dossier che determinano l’esito delle elezioni – economia, inflazione, immigrazione, politica estera – mentre i Democratici conservano una certa fiducia solo in ambito sanitario.
Approvazione in Congresso: ai minimi storici
Anche il giudizio sull’operato dei parlamentari democratici conferma il trend negativo. Secondo un sondaggio Quinnipiac, solo il 21 % degli elettori approva l’attività dei Democratici al Congresso, mentre il 68 % esprime una valutazione negativa. Si tratta di una bocciatura severa, che rende ancora più difficile la mobilitazione in vista delle prossime scadenze elettorali.
Tra ideologia e fratture interne
Molti analisti attribuiscono la crisi del partito al progressivo allontanamento dalle classi lavoratrici e dai settori meno istruiti della popolazione. Bernie Sanders ha parlato esplicitamente di un partito sempre più scollegato dagli interessi economici reali dei cittadini, eccessivamente concentrato su battaglie identitarie che parlano solo a una parte del Paese. Il risultato è una frattura interna tra progressisti radicali e centristi in cerca di una linea comune.
Serve una rifondazione
Secondo Time, il partito è oggi costretto a interrogarsi sulle sue priorità: serve un ritorno alla concretezza, una comunicazione più chiara sui temi economici e una nuova capacità di rappresentanza delle periferie geografiche e sociali degli Stati Uniti. Alcuni segnali di cambiamento emergono, ma il cammino resta accidentato e tutt’altro che scontato.
La crisi dei Democratici è profonda e non più congiunturale. Il sondaggio del Wall Street Journal suona come un campanello d’allarme: senza una revisione strategica, il partito rischia di perdere definitivamente la connessione con larghi strati dell’elettorato. E a quel punto, il ritorno di Trump non sarebbe più un’anomalia, ma una possibilità strutturale.
Il finale
Donald Trump, in questo contesto, gioca in casa. Si sente forte dell’appoggio dell’America profonda e sa di trovarsi di fronte a un’opposizione in crisi. Come nella stagione dei dazi, adotta una strategia spregiudicata, fatta di colpi a sorpresa e scommesse politiche. E proprio lo stupore, la sottovalutazione che spesso lo accompagna, si trasforma nel suo punto di forza: è la leva con cui destabilizza gli avversari. Un effetto bazar, dove il caos apparente diventa parte della strategia. E i democratici, sapranno reagire?