Il dissesto portato da un’immigrazione fuori controllo, l’indifferenza di fronte ai danni per la società, e la necessità di cancellare o cambiare programmi di immigrazione che risalgono a mezzo secolo o un secolo prima, in nessun luogo negli USA sono più evidenti che in California. Con una popolazione di quasi 40 milioni di persone, la California è lo stato USA più popoloso, ed è il terzo per estensione. Circa il 27% della popolazione è nato all’estero; si stima che circa 10 milioni siano immigrati giunti negli ultimi 15 anni, e che un quarto dei 10 milioni siano immigrati illegali. Il 60% delle famiglie di immigrati si sostiene grazie al welfare; tutte ne ricevono sussidi. La California è lo stato con il maggior numero di residenti miliardari; d’altro lato, i dati ufficiali dicono che un quinto della popolazione vive sotto il “livello di povertà”. Le tasse regionali e locali sono molto alte, eppure lo stato è al limite della bancarotta. Su 40 milioni di persone, metà del reddito viene da 150 mila contribuenti ricchi. La ricchezza è concentrata nelle grandi città della costa; invece, nell’interno e nel nord dello stato vi sono aree di indigenza. Nell’istruzione primaria e media, sulla costa vi sono scuole private ancora di buon livello, ma nell’interno, dove l’istruzione è pubblica, insegnanti, programmi e strutture sono inadeguati. Il debito della California è il 96% del suo PIL, benché il governo di Sacramento incassi 400 miliardi di dollari l’anno in entrate fiscali (le più alte degli USA) e riceva 360 miliardi l’anno di fondi federali. Senza voler attribuire gli squilibri o il dissesto di bilancio soltanto all’immigrazione, la realtà è che la California, cioè lo stato dove molti politici (a cominciare dal governatore Jerry Brown, che in gioventù aveva completato gli studi per divenire gesuita) esaltano i confini aperti e la multi-etnicità come un valore, è anche lo stato che ha il maggior numero di poveri in rapporto alla popolazione.
La California non è più quella di Ronald Reagan. Il non più Golden State, che fu un tempo l’oggetto del desiderio delle carovane di pionieri che attraversavano il continente da est verso ovest, è divenuto una rassegna dei mali americani. Da oltre dieci anni la California è deformata dalla pratica delle “città-santuario”, che danno rifugio a immigrati illegali e piccoli criminali. È debilitata dalla diffusione della droga, iniziata con il permesso alla marijuana, arrivata poi alla presenza di droghe pesanti. È condizionata da regole soffocanti in molti settori civili. Nelle grandi città, la società è gonfiata dall’immigrazione, è disorganica, pletorica. Eppure, quando il governo Trump propone medicine per abbassare la febbre, i politici Democratici, i gruppi dei diritti civili, le ONG finanziate dai magnati di Hollywood, gli attivissimi siti liberal, spendono decine di migliaia di dollari in cause legali per fermarne le azioni. Nel settembre 2017 il governo di Sacramento ha approvato una legge che fa dell’intera California uno “stato-santuario”, mettendosi – con il sostegno dei media locali, marcatamente liberal, di finanzieri come Tom Steyer e Soros, e di Hollywood – su una rotta di collisione con il governo Trump. La scellerata legge arriva a proibire a polizia e altre autorità locali di collaborare con le autorità federali in materia di controllo dell’immigrazione: per esempio, quando un immigrato illegale che ha commesso un crimine viene rilasciato dopo un periodo di detenzione, uno sceriffo non può informare i federali (cioè l’agenzia ICE), a cui la legge impone di mettere in atto l’espulsione. La Homeland Security afferma che nel 2017 oltre 80 membri di gang criminali sono stati rilasciati in California, e si sono dileguati. La strada per riparare il sistema dell’immigrazione negli USA è molto lunga, ma senza dubbio una tappa necessaria è la collaborazione tra le autorità locali e i federali. La Costituzione americana, ribadita da sentenze della Corte Suprema, afferma che gli stati non possono revocare il controllo federale su temi come l’immigrazione, che rimane una competenza del governo di Washington.
La tracotanza con cui sindaci e politici locali, per interessi elettorali, si oppongono al governo nazionale va oltre i confini della legalità, e rimane impunita a causa della protezione di magistrati al servizio di ideologie immigrazioniste. Un esempio tra i tanti: nel marzo 2018 il sindaco di Oakland (Libby Schaaf) ha avvertito gli immigrati illegali, tramite i media e i social media, che l’ICE (Immigration and Customs Enforcement) preparava una retata, e li ha consigliati di “mettersi in contatto con le ONG locali”. Così facendo la Schaaf ha commesso un reato, perché ha consentito che quegli illegali, tra cui vi erano condannati per piccoli crimini, si sottraessero all’arresto. Inoltre, come ha dichiarato il direttore dell’ICE (Thomas Homan), nei quartieri dove sono presenti gang criminali la Schaaf ha messo a rischio di imboscate gli agenti federali. Trump ha chiesto di indagare il sindaco per ostruzione della giustizia; altre voci ne hanno chiesto l’arresto; niente di ciò accadrà. Così come non vengono accolte le richieste di residenti californiani che, di fronte alla diffusione della droga e alla presenza di gang criminali, chiedono massicce espulsioni. L’utilizzo sotto costo degli immigrati per raccogliere le arance, o per fare le pulizie negli alberghi e nelle ville, non giustifica l’avvenuta invasione in grandi numeri. Voci californiane credibili affermano che i servizi sociali sono saturi. Quelle voci contestano anche altre priorità politiche del governo di Sacramento, affermando, per esempio, che l’alta velocità ferroviaria (abbandonata a metà per mancanza di fondi) è meno importante di nuove riserve d’acqua davanti a una siccità che ha devastato e impoverito intere valli; o che lo sviluppo di energie alternative è una buona cosa, ma i maggiori costi per l’utente ricadono sulle zone agricole, mentre i sussidi vanno alle industrie “verdi” che finanziano i politici Democratici.
Da quando il governo Trump si è insediato, il ministro della Giustizia Sessions ha più volte prospettato di togliere i fondi federali alle “città-santuario”, ma tali città (o contee come Santa Clara in California) ne hanno finora bloccato l’azione iniziando cause legali. Nonostante i bilanci dissestati, sindaci e governi locali stanziano fondi per i gruppi che difendono i diritti degli immigrati e per i loro avvocati, a supporto di cause volte a bloccare le azioni del governo federale e le espulsioni. Secondo dati della Homeland Security, il 70% di tali espulsioni riguarda abusivi già condannati per piccoli crimini, a volte già espulsi e rientrati negli USA. Le “città-santuario” sono un magnete per l’arrivo di nuovi illegali e di pregiudicati. Il criminale che nel 2015 ha ucciso la giovane Kate Steinle ha affermato, durante il processo, di essere andato a San Francisco perché sapeva che le autorità locali non lo avrebbero consegnato ai federali. Nelle “città-santuario” i rilasci di detenuti sono frequenti. In una testimonianza in Senato, il direttore dell’ICE ha affermato che nel 2016 sono stati rilasciati oltre 10 mila illegali che avevano condanne penali. Il rifiuto che i paesi d’origine oppongono a riprendersi i loro cittadini è tra le cause dell’incredibile dissesto, ma per superare quel rifiuto sono disponibili strumenti decisivi e progressivi: il taglio degli aiuti finanziari, o la mancata concessione di visti, o l’espulsione di diplomatici. Gli stessi strumenti che sono a disposizione dei paesi europei. In California prevale l’opportunismo di politici che hanno le riserve di voti nelle comunità di immigrati; e prevale la tirannia delle ideologie terzomondiste e antiamericane della sinistra USA e dei suoi media. Qualsiasi azione del governo Trump per correggere quanto accade, e peraltro qualsiasi appello del pensiero conservatore alle esigenze di convivenza e di sicurezza, vengono presentati come liberticidi, o magari “razzisti”, o anche fautori della “supremazia bianca”.
Il danno che ne deriva all’ex Golden State è misurabile ma non pubblicizzato. Scuole e infrastrutture, un tempo esemplari, sono deteriorate. La California è l’incubo del federalismo americano. Nonostante i molti residenti ricchi e le tasse alte, le entrate vengono divorate da sussidi e welfare. Nonostante la Silicon Valley, vi è una perdita di vitalità economica, tra le cui cause vi sono: il potere dei sindacati del pubblico impiego; l’alta tassazione; la pletora di regolamenti; la diffusione dissennata delle cause legali per qualsiasi contenzioso; e il governo di un partito unico, i Democratici. Agricoltori e piccoli imprenditori lasciano lo stato (molti diretti in Texas). Quasi quattro milioni di californiani hanno cambiato residenza in meno di dieci anni. Il degrado della convivenza è percepibile persino dal comune turista. San Francisco potrebbe essere la più bella città americana. Invece vi regna il degrado. In alcune strade si cammina tra file di postulanti, molti dei quali drogati, che vivono, dormono, urinano per strada. Per le notti vi sono tende nei parchi pubblici, a Union Square, sulle banchine del porto. Abusivi e piccoli criminali sono richiamati in città da un governo locale che distribuisce modesti sussidi e voucher per il cibo. I drogati non sono in grado di lavorare, devono mendicare o commettere crimini.
Tutto ciò sta portando, lentamente, a una ribellione. Nella Orange County – una delle maggiori contee della California, con 3,2 milioni di residenti, sede di alcune decine di società di largo fatturato e nota per attrazioni come Disneyland – voci significative si dichiarano stanche dell’invasione di illegali e di persone senza casa, che si accampano in tende fornite dalle ONG, anche per chilometri sui bordi di strade principali, con conseguenze sull’igiene e l’ordine pubblico. I governi locali di alcune piccole città nell’interno della California hanno contestato la legge che rende l’ex Golden State uno “stato-santuario” e proibisce alla polizia di collaborare con le autorità federali. Della possibile rivolta contro il governo di Sacramento si è avuto di recente un segnale quando alcuni sindaci, alcuni sceriffi, procuratori ed esponenti di consigli comunali si sono riuniti alla Casa Bianca per esprimere a Trump il loro disagio. Le elezioni del prossimo novembre diranno se la strada per cambiare è percorribile, in una California che da due decenni è uno stato con un partito unico. Nel giugno 2018 il Los Angeles Times (giornale molto liberal) ha scritto che un progetto di dividere la California in tre stati separati sarà oggetto di referendum in novembre. Il progetto, che andrebbe comunque incontro ad anni di battaglie legali prima di approdare in Congresso, non ha possibilità di successo, perché chi governa lo stato non vuole perderne il controllo: per esempio, non vuole perdere i 55 voti elettorali (quasi un quinto del totale, che è di 270) attribuiti a chi ha la maggioranza in California nelle elezioni presidenziali. Ma la richiesta di dividere lo stato è significativa dei conflitti esistenti.
Come altrove negli USA, il dominio del partito unico comincia con l’istruzione. Il pensiero liberal controlla scuole e università. Per trovare lavoro in un campus come insegnante o amministratore, bisogna dimostrarsi avversi al pensiero conservatore. Un professore può essere anche di qualità scadente, purché sia di sinistra. Se poi è “non-white”, l’impiego è più facile. Gli studenti assorbono il messaggio; vi sono testimonianze che in molti casi essi vengono indottrinati, più che istruiti. Il voto è lo scopo finale. Lo scopo, per esempio, della sanità gratuita ai nuovi immigrati (tramite il programma Medicaid), o delle spese scolastiche pagate dallo stato anche ai figli di immigrati illegali. E per votare in California è sufficiente avere la patente di guida, che tutti hanno, e per ottenere la quale non è richiesta la residenza legale. Quando dati ufficiali hanno indicato che circa un milione di non residenti hanno la patente di guida, il governatore Brown ha affermato che la patente li costringe ad avere l’assicurazione per l’auto, rendendo le strade più sicure. L’argomento ha una logica, ma la patente facile è un altro magnete per nuovi immigrati, e un altro strumento per nuovi voti. Vi è una tracotanza della politica liberal: quando il nuovo censimento federale, in programma nel 2020, ha previsto una domanda sulla cittadinanza dei dichiaranti, il governo di Sacramento ha iniziato una causa legale per cancellare la domanda, perché essa potrebbe “scoraggiare gli immigrati dal partecipare al censimento” e indirettamente scoraggiarli dall’andare a votare.
Tale tracotanza non è una prerogativa della California. A New York City, dove, su una popolazione di oltre otto milioni di persone, circa la metà sono nate all’estero, il sindaco De Blasio ha trasformato la “Grande Mela” – a cui da oltre un secolo nel mondo intero si guarda come a un miraggio – in una “città-santuario”, e indegnamente ha imposto condizioni alla polizia affinché non collabori con i federali in materia di immigrazione. Non solo: il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo (di cui si parla come candidato Democratico alla presidenza) si fa pubblicità attaccando l’agenzia federale ICE quando quest’ultima, di recente, conduce a New York un raid con l’arresto di 225 illegali (di cui 180 con condanne criminali in atto); Cuomo arriva a minacciare gli agenti federali di cause legali per aver “violato proprietà private”. Cioè: non è lecito entrare in casa di un piccolo criminale per arrestarlo, però è lecito – su mandato del procuratore speciale Mueller, autorizzato dal vice ministro della Giustizia Rosenstein – forzare a New York gli ingressi nelle abitazioni dell’avvocato di Trump (Cohen) o di un suo ex collaboratore (Manafort) per sottrarre documenti che non hanno relazione con l’indagine, fin dall’inizio priva di fondamento, di cui Mueller fu incaricato. La spaventosa realtà di due diversi livelli di giustizia, divenuta pubblica (ma occultata dai media) con il recente rapporto dell’Ispettore Generale del Dipartimento Giustizia, trova frequente rappresentazione.
La guerra civile nella società e nella comunicazione che la sinistra politica, il globalismo e il terzomondismo hanno dichiarato al governo Trump danneggia gravemente la California e l’intera nazione. La dimensione del problema degli “stati-santuario” (anche l’Illinois lo è divenuto nel settembre 2017, il Maryland sta per divenirlo, l’Oregon lo è di fatto) e delle “città-santuario” (parliamo di decine di grandi città, da Filadelfia a Seattle a Baltimora, da Boston a Denver a Los Angeles, e di decine di contee) è poco conosciuta. Interessi elettorali e abbiette ideologie impongono agli USA una conflittualità i cui effetti disgreganti possono divenire maggiori di quelli degli stati del Sud contrari, negli anni Sessanta del Novecento, alla parità dei diritti per i neri. Riguardo strettamente alla California, il sogno poco realizzabile dei conservatori è quello di trovare un governatore che, come Ronald Reagan negli anni Settanta, faccia appello agli istinti migliori dei cittadini, opponendosi all’immigrazione senza freni e alla dipendenza dal welfare – ciò che Reagan definiva “mettere a lavorare i fannulloni (bums) del welfare” –, e prospettando una battaglia vincente contro la criminalità e la droga. Coloro che coltivano tale sogno tendono a rievocare Reagan governatore (e poi presidente) come un dispensatore di radioso ottimismo americano; ma Reagan fu a lungo l’interprete di una gestione senza compromessi. Non si vede chi oggi possa assumere un ruolo analogo nella sovraffollata, confusa, al tempo stesso edonista e pauperista, e stremata da incendi devastanti, California. Forse Trump, se nel 2020 deciderà, contro ogni probabilità, di fare campagna elettorale in California e chiedere un cambiamento.