“Non ci siamo proprio!”. A Rino Formica non piacque 30 anni fa il discorso di Giuliano Amato in Parlamento. Oggi come allora? In effetti ritorna la medesima preoccupazione o meglio il medesimo ripudio di una logica, sottile e pericolosa, sostanzialmente a un dipresso dalla eversione dell’impianto storico della Repubblica. La differenza è che nel 1993, agli atti del Parlamento, restò solo una interruzione di quel tenore, mentre oggi l’attacco di Formica, attraverso un ragionamento che avvolge le responsabilità di Amato, è più strutturato e intellegibile nel quadro di una intervista pubblicata ieri sul Domani.
Andiamo per ordine. Cosa avvenne 30 anni fa? Il pomeriggio del 21 aprile 1993 il Presidente del Consiglio, Giuliano Amato, traeva le conclusioni davanti alla Camera dei Deputati, riunita sotto la presidenza di Giorgio Napolitano, dal voto referendario sull’abolizione del sistema elettorale a preferenza multipla e, in parallelo, del finanziamento pubblico dei partiti. Colpisce ancora il tono delle dichiarazioni che andavano ben oltre la presa d’atto della necessità di dimissioni del governo, dopo un anno di tormentata esistenza. Ecco lo stralcio del resoconto stenografico: “Cerchiamo – dice Amato – di esserne consapevoli: l’abolizione del finanziamento statale non è fine a se stessa, esprime qualcosa di più, il ripudio del partito parificato agli organi pubblici e collocato fra di essi. È perciò un autentico cambiamento di regime, che fa morire dopo settantanni quel modello di partito-Stato che fu introdotto in Italia dal fascismo e che la Repubblica aveva finito per ereditare, limitandosi a trasformare un singolare in plurale (Vivi commenti)…” e qui s’inserisce l’interruzione di Rino Formica: “Non ci siamo proprio”. Quindi, di seguito, riprende Amato: “Con assonanze profonde, che investono la crisi di rappresentatività da cui oggi sono afflitti non soltanto i tradizionali partiti…(Vivi commenti). Per l’amor di Dio, colleghi, cerchiamo di capirci! È l’idea del partito legato prevalentemente agli organi dello Stato (Applausi dei deputati dei gruppi della lega nord e federalista europeo — Vivi commenti). (A.P. 1993, 12841-42).
Il giorno dopo piovvero le critiche, anche sui giornali di partito. A firma di Pio Cerocchi, apparve sul Popolo lo sgomento del gruppo dirigente della Dc. Il titolo era più che eloquente: “Non si può riscrivere la storia”. In più si lesse sempre Formica parlare di “discorso pessimo”, mentre Sergio Mattarella confessò di essere rimasto “persino sorpreso”. Quel tentativo di schiacciare la democrazia nata dalla Resistenza sulla continuità del partito di regime – con la trasformazione, appunto, in partiti di regime – imposto dal fascismo, aveva qualcosa di profondamente equivoco. Fu la lucida e corrosiva introduzione alla retorica e alla prassi della cosiddetta seconda repubblica.
Ora, venendo al Formica di oggi, il commento alla clamorosa intervista di Amato su Ustica ripropone ed aggraverà le considerazioni critiche di un tempo. A Marco Damilano consegna infatti un giudizio lapidario: “È un intervento che va inquadrato nel clima di questi ultimi mesi. Si vuole chiudere la stagione della Repubblica anti-fascista. Si vuole spingere il paese a prendere atto che un assetto si è definitivamente concluso e che se ne deve aprire un altro. C’è il cedimento della struttura istituzionale che vede un governo parlamentare e un’opposizione parlamentare, entrambi rispettosi della rappresentanza politica del paese, nata l’8 settembre 1943”.
Siamo di fronte a un interrogativo nient’affatto superficiale o pretestuoso. È solo un caso che s’inciampi a distanza di un trentennio in una visione di rottura – dall’alto e non dal basso – che vede protagonista lo stesso uomo politico, sicuramente una delle personalità che più hanno segnato in questo lungo periodo la scena pubblica italiana? È una domanda che sfiora, in fin dei conti, la complessa figura di Giuliano Amato, forse anche il suo bordeggiare una elegante condizione di enigmaticità. Almeno in alcuni passaggi fondamentali della vita democratica italiana.