Vajont 1963, una tragedia costellata di umili arroganti e corrotti.

Nella notte del 9 ottobre si generò uno spostamento d'aria di potenza eccezionale. È stato poi stimato che l'onda d'urto fosse addirittura il doppio dell'intensità generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima.

C’è una lapide al cimitero di Longarone, con alcune immagini di persone scomparse. Dice: “Barbaramente e vilmente trucidati per leggerezza e cupidigia umana attendono invano giustizia per l’infame colpa – Eccidio premeditato Vajont 9 – X – 63”.

Il potere della cupidigia e della presunzione e i loro molti servitori

Come affermò il Notaio di Longarone Isidoro Chiarelli, superstite, fu “un eccidio e non una disgrazia”. “Una strage decisa a tavolino” secondo sua figlia Francesca. 

Nello studio del Notaio “nei giorni precedenti la tragedia, si incontrarono alcuni dirigenti della Sade, la società proprietaria della diga del Vajont. Si doveva definire la compravendita di un terreno, quando a un tratto il discorso virò. «Facciamolo il 9 ottobre, verso le 9-10 di sera», propose uno di quei dirigenti. «A quell’ora saranno tutti davanti alla tv, e non ci disturberanno, non se ne accorgeranno nemmeno. Avvisare la popolazione? Per carità. Non creiamo allarmismi. Abbiamo fatto le prove. Le onde saranno alte al massimo 30 metri (arrivarono a 300, ndr) non accadrà niente, e comunque per quei quattro montanari in giro per i boschi non è il caso di preoccuparsi troppo».

Questa la conversazione, ha raccontato Francesca Chiarelli al “Gazzettino di Venezia”, tenutasi davanti alla scrivania di suo padre. Poi, come se la scena si svolgesse a Brooklyn, ecco le minacce al notaio, morto nel 2004. «Lei ha un segreto professionale da rispettare, caro notaio, altrimenti se ne pentirà…» (“Il Giornale”, 30 Settembre 2013).

Quello che è certo che i tecnici (gli arroganti) dovettero prendere rapidamente atto che le pendici del Monte Toc e tutta l’area dell’invaso – contro ogni studio di vari geologi e anche di modellini a tavolino (la presunzione in nome dell’insindacabilità della tecnica, da cui l’arroganza) – non erano adatti ad assicurare i risultati produttivi ipotizzati con la Diga (la più alta del mondo, allora; oggi la quinta; o, forse, ancora primeggiante come il più alto catafalco al mondo…). Ma nessuno ritenne evidentemente possibile, e comunque assolutamente improponibile nonché ‘sconveniente’ (i corrotti), dubitare o contrastare il Progetto “Grande Vajont” messo a punto dall’Ing. Carlo Semenza tra il 1929 e il 1959 e che aveva nell’immensa Diga il suo fulcro. 

Il Progetto ottenne l’approvazione ministeriale il 17 Luglio del 1957 (Lavori Pubblici) e il Governo italiano finanziò il 45% dell’importo. 

Nonostante la consapevolezza che l’invaso si sarebbe appoggiato in una zona caratterizzata da accertate paleofrane non si tornò indietro. La Diga fu costruita fra il 1957 e il 1960.

Così dopo aver sistemato tutto, e tutti, si dovette cominciare a fare i conti con la realtà. La questione numero uno divenne allora quella di come pilotare senza troppi pericoli e senza dismettere l’impianto le frane che si sarebbero a breve presentate. Perché era certo che ci sarebbero state (da qui la testimonianza della Chiarelli).

Il Vajont, collezione di primati negativi

La tragedia del Vajont è al primo posto (ancora) tra i 10 peggiori esempi di gestione del territorio e dell’ambiente nel Rapporto Onu presentato in occasione dell’ International Year of Planet Earth del 2008. «Il Vajont è un classico esempio del fallimento di ingegneri e geologi nel  comprendere il problema che tentavano di risolvere», dice il documento indirizzato a Governi ed esperti di tutto il mondo, con il monito a non ripetere gli stessi errori.

Casomai questo non bastasse, a Maggio 2023 l’Italia ha collezionato una nuova significativa iscrizione nel Registro Internazionale del Programma UNESCO Memory of the World: è l’ “Archivio Processuale del Disastro della Diga del Vajont”. I documenti di questo archivio ricostruiscono la vicenda, gli sviluppi e l’iter giudiziario successivamente alla tragedia del 9 Ottobre 1963, un esempio di come non si fanno le inchieste per accertare i fatti, di come sistematicamente si misconosce la verità nonché una testimonianza di come un Paese democratico nega la giustizia più elementare.

Per il mondo, insomma, il Vajont è un case study globale per i secoli a venire.

Quella sera a Longarone intorno alla TV

Mercoledì 9 Ottobre 1963 la Rai trasmetteva in differita, dalle 21,55, la partita di Coppa dei Campioni Real Madrid-Rangers Glasgow. I bar di tutta Italia erano pieni, in casa pochi avevano la TV. I bar di Longarone erano pienissimi perché era scesa anche gente dalle valli vicine, dove il segnale non era ancora arrivato.

Il Sacrificio degli umili: Giancarlo Rittmeyer.

Quella sera Giancarlo Rittmeyer, giovane geometra triestino, competente, ingaggiato dall’Ing. Biadene e dalla “Sade” – Società Adriatica di Elettricità, che in un sistema molto disarticolaro e assai lasco (per essere buoni) di soggetti che vi intervenivano a vario titolo, gestiva l’impianto del Vajont, quella sera fu raggiunto telefonicamente nella sua casa di Venezia da Biadene, preoccupatissimo – ma troppo tardi – di come stava finendo la giornata sulla Diga.

Rittmeyer lascia la moglie incinta, e senza cenare in due ore, poco dopo le 21,00, è sulla Diga. 

C’è una squadra di 54 operai in una casetta alla base della Diga, c’è una palazzina comandi più oltre, ci sono gli uffici della Sade, ci sono le passerelle metalliche, c’è il ponte del Colombèr sul torrente Vajont.

Rittmeyer s’inerpica e raggiunge la cabina comandi centralizzati sul versante sinistro del bacino. Da sotto si vede poco ma di lì, da sopra, si vede la montagna, il Monte Toc (‘Toc’ significa ‘marcio’…), che cede. Telefona a Biadene alle 22 e chiede urgenti istruzioni. Biadene la racconterà diversamente in uno dei processi, tanto ormai nessuno poteva più smentirlo. Ne aveva già raccontate tante, Biadene, da tempo. La Sade aveva deciso che chiunque si fosse messo di traverso al suo colossale affare, ‘aiutato’ da una congerie di interessi/ritorni politici, doveva essere allontanato, o manipolato, o ‘convinto’. Ci si era abituati ad ‘aggiornare’ in un batter d’occhio anche vecchie perizie geologiche, ‘tanto cosa vuoi che succeda’…

Rittmeyer sparì in quella notte. Il corpo non è più stato trovato. 

Gli operai della squadra, anche loro, morirono tutti (impauriti, avevano da tempo chiuso le finestre verso la Diga con assi di legno).

Arnaldo Olivier, scampato con i genitori.

Arnaldo Olivier aveva diciassette anni ed era a vedere la partita in un bar di Codissago. Ha un presagio, l’aria sospesa all’improvviso, come in attesa di farsi da parte per far venire il padrone di quella sera, la morte. Va via la corrente e lui sente quello che chiamerà “l’odore della morte (che) sa di fango, di marciume, di sangue, di paura” (da quel momento Arnaldo perderà per sempre l’olfatto). Arriva l’acqua e rovescia e ribalta tutto, si ritrovano nel fango fino al collo lui e la mamma, senza vestiti.

Arnaldo viene sbattuto come un mulinello tra mobili e pareti. Minuti interminabili di puro terrore; poi all’improvviso l’acqua inizia a defluire, lo spinge verso l’esterno.

Sicuro di venir portato via a valle rimane invece incastrato per puro miracolo da qualche parte, finché aperti gli occhi vede passare un detrito simile ad un albero. Era invece sua mamma che se ne andava via con l’acqua. Fece in tempo a fermarla e assieme rimasero intrappolati tra il fango e i detriti: erano salvi.

La notte del 9 Ottobre

270 milioni di metri cubi del Toc in una ventina di secondi precipitarono nel bacino ad una velocità stimata tra i 60 e i 100 km orari. Delle tre gigantesche onde che s’innalzarono nel cielo notturno del Vajont, la terza, 50 milioni di metri cubi di acqua e detriti, alta 230 metri, scavalcò la Diga e si precipitò giù per la gola del torrente, che fece da canale di convogliamento, potenziamento e accelerazione. Si generò uno spostamento d’aria di potenza eccezionale. Inoltre, è stato poi stimato che l’onda d’urto fosse addirittura il doppio dell’intensità generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima, la metà delle vittime che si trovavano all’aperto fu smembrata e polverizzata, e di loro non si è più ritrovato nulla.

Quasi tutti i cadaveri recuperati, quando interi, erano completamente nudi. Un inferno come ad Auschwitz.

L’alba del giorno dopo: la tragedia messa a nudo. 

I morti sono 1917, di cui poi sepolti 1454. Di questi solo 701 sono stati identificati, i restanti irriconoscibili. Circa 500 persone mai più rinvenute. 487 furono i bambini morti, solo una cinquantina fra tutti sopravvissero. Allora le comunità locali erano allietate da moltissimi bambini e ragazzi, e la morte ne approfittò.

Si vogliono qui ricordare i volti sorridenti e innocenti di Giuseppina Nicoli, nella foto della sua Classe della 5a Elementare di Longarone. Di Graziano, sette anni, e Stefano, nove mesi, e della loro mamma, Pia Maraner. Di Marinella Callegari, dieci anni, e dei suoi genitori, Almerino e Maria Luisa. Delle tre cuginette di Mirella Bratti: Lidia, detta Didi, di diciassette anni, Antonella di quattordici, e Marilina di dodici.

Il volto felice di Antonella Serafini, sette anni, 3a Media, sepolta nell’acqua della Diga insieme a babbo, mamma e le sue due sorelline.

E si vogliono ricordare le 6 figliolette festanti del Maestro di Longarone, Paolino De Bona, tutte morte con babbo e mamma. Il corpo del Maestro fu ritrovato dopo qualche giorno, senza testa, identificato solo per la fede nuziale all’anulare. Morto anche il fratello di Paolino, Elio De Bona, pur’esso Maestro, con moglie e figlioletto. Ma non si può proseguire senza mettersi inconsolabilmente a piangere.

“Colpa o non colpa, ci sono duemila morti” – Mario Pancini

Così era solito chiudere ogni discorso al termine delle udienze l’Ing. Mario Pancini, il tecnico rodigino residente al cantiere della Diga, che si era già preoccupato di far presente a Semenza la necessità di favorire artificialmente la scivolata della montagna nell’invaso. Prima che lei ci pensasse fa sola (“…Tanto avverrà” – Pancini).

Su questo insistette poi anche con l’Ing. Alberico Biadene, il quale alla morte di Semenza nell’Ottobre del 1961 aveva preso il suo ruolo di Direttore del servizio Costruzioni Idrauliche e dal  gennaio del 1962 anche quello di Vice Direttore Generale Enel-Sade. Figura conosciuta per la sua intransigenza (anche verso gli operai del cantiere alla Diga).

“La Diga ha resistito bene”, f.to Biadene

Celebre il cablogramma che Biadene inviò a Pancini in quel momento in ferie negli Stati Uniti, all’hotel Niagara a Buffalo, il giorno successivo per informarlo dell’accaduto: “Improvviso crollo enorme frana ha provocato tracimazione Diga Vajont con gravi danni Longarone Stop Diga ha resistito bene Stop f.to Biadene”.

Biadene, l’altezzoso irruente e spregiudicato Direttore del Vajont post Semenza, fu alla fine – 1971 – riconosciuto responsabile di disastro d’inondazione, aggravata dalla sicura previsione dell’evento (che lui volutamente trascurò e occultò in ogni modo), e degli omicidi. 

Venne condannato a cinque anni di reclusione (due per il disastro e tre per gli omicidi), di cui tre condonati “per motivi di salute” (!).

Restò nel carcere di Santa Maria Maggiore a Venezia dal Maggio 1971 al Maggio 1973, scarcerato in anticipo per buona condotta. Il 17 Maggio del 1972 aveva presentato domanda di grazia al Presidente della Repubblica Giovanni Leone, che era stato il Capo degli Avvocati Enel-Sade al processo. Motivazione: l’imprevedibilità del disastro. La motivazione fu accettata.

Nei due anni in carcere fu ospitato in una cella confortevole, con tutti i servizi che aveva richiesto: un detenuto che gli faceva da domestico, la visita quotidiana della moglie e ricchi pacchi di viveri della Enel-Sade.

Non fu questa invece la sorte dell’Ing. Mario Pancini, il vice di Biadene, che ossessionato dal peso della colpa preferì suicidarsi con il gas a cinquantasei anni nella sua casa di Cannaregio a Venezia il 24 Novembre del 1968.